Intervista ad Andrea Campucci
Quanti pensano che la generazione dei trentenni ha poco da dire perché sa poco e non si dà da fare dovrebbero leggere l’intervista ad Andrea Campucci. Il giovane autore di Cupio Dissolvi e Nietzsche: la fine della ragion pura (solo per citare gli ultimi lavori) non solo è un autore degno di nota, ma osserva la realtà senza stancarsi.
I protagonisti del suo Cupio Dissolvi più che avere un desiderio di morire (come parrebbe indicare il titolo latino) sembra siano mossi dal desiderio di appartenenza, di fusione totale con l’altro o mi sbaglio?
Certo, ed è proprio l’esperienza dell’impossibilità di questa fusione a trascinarli alla morte. E a scatenare tutto ciò può bastare un ricordo, un profumo, una crepa sul soffitto. Attraverso i personaggi dei racconti ho voluto dar voce a quel mondo di forti dissonanze che si nasconde al di sotto delle nostre abituali convenzioni. E ho scelto di trattarlo in chiave onirica proprio perché è nella dimensione del sogno che si annidano i maggiori contrasti irrisolti che poi, trasferiti nella vita di tutti i giorni, possono assumere le sembianze di un vero e proprio desiderio di morte. Mi piacerebbe poter dire, si parva licet, che questa raccolta si inserisce in un percorso che parte dal Tristram Shandy di Sterne, che passa attraverso I racconti di Pietroburgo di Gogol’, per arrivare a The Dubliners di Joyce, con influenze certamente di stampo surrealista (Savinio e Landolfi, ma anche il cinema di Buñuel). Ma per tornare alla domanda ci terrei a precisare che non si tratta dell’impossibilità di appartenere, o di fondersi, con l’altro, quanto dell’incapacità propriamente umana di appartenere a se stessi. Tutti i miei personaggi infatti sono alla costante ricerca di un riconoscimento, riconoscimento che può essere simboleggiato dal dente estratto a una bella donna, da una fotografia che svela un volto mai visto, o da una cicatrice sul volto: e paradossalmente è proprio questo riconoscimento a manifestare la disgregazione ormai avvenuta, l’irrecuperabile unità con il proprio io che produce degli strascichi che rasentano la follia e di cui l’altro si fa semplicemente interprete. Mi verrebbe da terminare questa risposta con il celebre passaggio pirandelliano in Uno, nessuno e centomila: “Io sono vivo e non concludo…”
Quanto la filosofia entra in Cupio Dissolvi?
Dall’inizio alla fine, penso, dal momento che ogni produzione letteraria è figlia di una precisa visione del mondo. Probabilmente anche Il diavolo veste Prada, o I love shopping si rifanno a una certa filosofia dell’intrattenimento più o meno beduino. Ogni singola azione, dall’accendere una lampadina al lavarsi i denti, si porta dietro un insieme di consuetudini che parlano della nostra personalità. Per cui sì, in tutti i miei personaggi ho cercato di mettere in mostra un certo modo di “abitare il mondo”, per esprimermi con il Merleau-Ponty de Il linguaggio indiretto. Per non parlare dei Frammenti postumi di Nietzsche, eredi di una tradizione gnoseologica risalente al misticismo di Meister Eckhart o all’empirismo dei vari Hume o Cabanis. Anche l’esistenzialismo ha avuto la sua parte, soprattutto nell’accezione di un mondo pericolosamente sfiorato dal nulla (Sartre) all’interno del quale i suoi personaggi si trovano a fare i conti con la vacuità dei loro progetti di vita (Il mito di Sisifo) e l’assurdità di ogni tentativo di autorealizzazione (questa volta mi autocito con L’arte del trasloco, ma potrei anche optare per L’occhio del tempo). Tutto questo senza dimenticare che la narrativa ha una sua precisa autonomia e non deve certo farsi schiacciare dal pensiero teoretico.
Perché la scelta di un’analisi di Nietzsche e non di un altro dei grandi filosofi?
Sembra una moda quella di scrivere e occuparsi di Nietzsche, tanto che di pubblicazioni in proposito il mercato (accademico e non) è ormai saturo. Mi viene da pensare alla classica domanda da terza liceo: “Qual è il tuo filosofo preferito?” E in cima alla hit parade delle risposte ci sono sempre i soliti noti: Marx, Nietzsche e Freud, un gradino sotto arriva subito Kierkegaard. Mi viene anche da pensare che nessuno cita mai Ricoeur o Carnap (esclusione fatta per gli ambienti universitari). Per cui sì, occuparsi di Nietzsche può sembrare fin troppo scontato, per non dire popolare. Ma affrontare il pensiero di un gigante come il filosofo di Röcken richiede sempre un bagno di umiltà, soprattutto per orientarsi nel mare sterminato dei suoi scritti. E se ho deciso di concentrarmi sui molti appunti dei Frammenti postumi, di Così parlò Zarathustra o di Aurora, è stato perché in quei testi ho trovato le tracce del processo (intellettuale) che il filosofo ha portato all’intero Occidente, mettendo alla berlina i suoi pregiudizi teorici facenti capo alla tradizione scientifico-razionalista e al pensiero cristiano. Eterno ritorno, Volontà di potenza e Oltreuomo formano una specie di plotone d’esecuzione nei confronti, ad esempio, delle idee di “anima”, “identità”, “credenza”, etc. Un processo che poi ha avuto il suo seguito nel novecento, visto che, esclusi certi appunti heideggeriani, il pensiero nietzscheano è stato ripreso dagli strutturalisti francesi, dalla Scuola di Francoforte, dallo stesso Derrida, etc. Basti pensare che in tre righe dei Frammenti postumi si ritrovano, con un discreto anticipo cronologico, i deliri lisergici di Pasto nudo di Burroughs, la contestazione degli anni sessanta e tutto il postmodernismo.
Lei fa l’editor per diverse case editrici, quanto questo lavoro l’aiuta (oppure le è d’intralcio) nella scrittura di tuoi libri?
Moltissimo, ma non solo per quanto riguarda i libri: anche per la stesura di quest’intervista, che spero di portare a termine senza nessun tipo di refusi o virgole all’aria. Scherzi a parte si tratta di un lavoro utilissimo, perché molto spesso la validità di un libro è data dall’intervento del redattore. Fare questo tipo di lavoro ti permette di acquisire le conoscenze necessarie per avere un “rapporto totale” con il libro, da una corretta impaginazione a un’analisi minuziosissima su ogni singola parte del testo, e sono tutte qualità che uno scrittore non sempre possiede. È indubbio quindi che un’attività come questa sia d’aiuto, soprattutto quando si deve consegnare un testo a un editore e si sa che sarà sottoposto agli impietosi raggi x di un altro redattore. Certo, si corre il rischio di diventare nevrastenici, con punte di autentica misantropia, nello sviluppare un odio profondo nei confronti di robe tipo queste: E’, perchè, A’, caffé, e via discorrendo. Ma tutto sommato si tratta di una palestra irrinunciabile se si vuole acquisire il know how tecnico che, come in ogni campo, può fare la differenza fra un prodotto di qualità e non. (Non mi pare ci siano stati errori di battitura fin qui).
Cosa ne pensa del mercato editoriale contemporaneo?
Uhm, domanda di riserva? Per rispondere proverò, una volta tanto, a fare a meno delle parole chiave che di solito fanno parte integrante del discorso, e cioè: “Crisi” e “disoccupazione giovanile”. Detto con il massimo della franchezza a me non importa niente se in Italia la percentuale di lettori è a livelli neanderthaliani: l’editoria è sempre stata un settore controverso e non ha senso provare a recuperare qualche fetta di pubblico con l’ennesima autobiografia di Del Piero (scritta sì da un giornalista frustrato che sicuramente nella vita aveva altre ambizioni). Che poi in cima alle classifiche si trovino libri dei soliti grossi editori non dovrebbe stupire nessuno (e giuro che non ce l’ho con loro se non mi hanno ancora preso). Che poi la piccola editoria faccia fatica a sopravvivere è un altro dato lapalissiano, e questo succede anche al di fuori della nostra arretratissima Italia. Certo, si potrebbe aprire una grossa parentesi sui finanziamenti alla Cultura (che io preferisco scrivere con la c maiuscola), che senza dubbio sono un po’ scarsini, ma questo non deve creare alibi: la maggior parte degli editori fallisce perché pubblicano porcherie o non hanno avuto la fortuna di centrare il bersaglio grosso. È così da che mondo è mondo. Le difficoltà economiche di questo periodo hanno sì aggravato la situazione, ma anche creato una generazione di piagnoni la cui unica risposta è quella di dare la colpa agli altri. Che pensino a fare libri di qualità piuttosto! (Parlo dell’editoria ma il discorso vale per qualsiasi altro settore). Per non parlare poi dell’editoria digitale, vera e propria piazza virtuale per la “condivisione” (parola che forse usata negli anni settanta poteva avere un significato, ma che ora è un po’ stantia come la fotografia in bianco e nero di un nonno che non si è mai conosciuto). Basti pensare che secondo alcuni sondaggi (non me ne voglia nessuno se poi le cifre sono diverse, la quantità resta comunque spaventosa), in Italia si pubblicano ben sette libri l’ora. Sono un po’ troppi, visto che non penso che esistano al mondo tanti Flaubert in una volta sola. L’apertura di nuove frontiere digitali ha sì avuto qualche riscontro positivo, ma ha anche prodotto una marea di schifezze, per cui anche il più sprovveduto sulla faccia della terra può prendere e dire: «Che bello, ho pubblicato un libro!», salvo poi attaccare una nenia interminabile contro i grandi editori che a suo dire lo snobbano. In questo, come in molti altri casi, vale un esemplare passaggio della Commedia umana di Balzac: “Proclamando tutti uguali si è proclamata la dichiarazione dei diritti dell’invidia…”
Cupio Dissolvi pubblicato dalla casa editrice Arduino Sacco Editore (euro 13,90) è acquistabile direttamente sul sito della casa editrice.
Nietzsche: la fine della ragione pura è edito dalla casa editrice Mimesis nella collana Filosofie diretta da Pierre della Vigna e Luca Taddio.