Vederla Morire di Stephano Giacobini
“Il rosso del sangue che le conquistava porzioni sempre più ampie del candido abito. Urla strozzate che giungevano smorzate a orecchie ormai sorde. La presenza della morte, con la sua ineluttabile forza divoratrice”. Una scia di morte evocatrice di vendetta, come risposta all’incomprensibilità del dramma. Reazione giustificabile, anche se nel suo profondo risplende un mistero. Quello che porta il lettore a scorrere le pagine di Vederla Morire di Stephano Giacobini, edito da Spoon River e disponibile su InMondadori a soli 8,42 €.
Un racconto di destini incrociati e diversi, di forme all’apparenza anonime che compongono la quotidianità di una città produttiva, Torino, abitata da classi sociali distanti in aspirazioni, sogni, ideali. Cammini esistenziali vicini e inattingibili, che corrono lungo direttive parallele. Almeno in teoria. Prima dell’avvento di un fattore scatenante, prima di un innesco drammatico volto allo sviluppo di trame dal crescente grado di complessità.
È la superficiale chiarezza del reale la scintilla d’origine del sospetto. Quale codice fittizio imbriglia la natura profonda, più vera, delle figure mostrate? Nel tentativo di porre una risposta assistiamo al portato descrittivo della società, sfondo ma anche vera protagonista di Vederla Morire, e delle individualità che la popolano. “Il suo disagio personale si rispecchiava pienamente nelle ingiustizie sociali, la sua lotta interiore si esprimeva nelle battaglie che portava avanti senza risparmiarsi. Partecipava a molte manifestazioni, sulla pace, sulla fame nel mondo”.
Le contrapposizioni sono nette, tanto da rievocare un lontano, sebbene vivo nella psiche dei protagonisti, richiamo a contrasti di classe. Divisioni generazionali. Non è però un intrigo risolubile nell’approccio della mera razionalità. Vederla morire è infatti anche una storia d’amore. Un amore macchiato di sangue. Quello provato da un partner appassionato e quello sperimentato dall’orgoglio ferito di un padre. Il denaro assurge allora a strumento d’affermazione delle proprie ragioni sull’altro. Ma quella che potrebbe ridursi a partita a due è, in realtà, il punto d’origine di una serie, a tratti convulsa, di eventi.
“Non ho viaggiato se non per lavoro, ho sempre cercato di mettere da parte il più possibile, per lei, per Clarissa. Per darle in ogni momento tutto quello che desiderava. Ma ora, che la maggior parte dei suoi beni, che sono i miei beni, perché ciò che possedevo glielo avevo intestato io, debba andare a quel fannullone, a quel cialtrone…No, questo non lo accetto”. I sospetti, fondati o meno che siano, conducono a una sentita battaglia legale, nella quale l’importante è far valere le proprie ragioni, lasciare che la legge proclami l’oggettiva fondatezza del proprio punto di vista. Del proprio sé, della propria visione del mondo. “Angelo Mistretta non si avvide di nulla. Non si accorse di Oliviero che scendeva dall’auto con il bastone occultato sotto il cappotto, lo seguiva sulla scalinata, gli si avvicinava da tergo, brandiva la mazza con entrambe le mani e, giunto a distanza ravvicinata, gli sferrava il fendente”.
Vederla morire sceglie un ritmo narrativo blando, proiettato sul contorno esistenziale e sociale della vicenda. Sono poste in luce le mentalità di famiglie e persone, il rapporto tra origine e formazione, tra conformismo e la visione benpensante di una borghesia ormai forse scomparsa. Tratti quasi stereotipati, connotazioni ascritte persino agli ambienti privati, nel loro arredamento, nelle scelte estetiche. E torna, come un assillo, il tentativo vano di dare un senso alla morte, che tanto più ci è cara tanto meno è sopportabile. Vederla morire è in fondo il racconto di una fuga dalla realtà, possibile solo per un tempo determinato. Prima che un nuovo, inatteso cascame d’attualità non sia chiamato a riscriverne la conclusione.