Intervista a Pino Tossici autore di “Cento giorni sul comò”
Cento giorni sul comò è un opera autobiografica, lei è d’accordo con l’espressione usata da Carmelo Bene “ogni autobiografia è immaginaria”?
Veramente Carmelo Bene nel suo “temporale autobiografico”, come aveva definito le sue memorie raccolte in “Sono apparso alla Madonna”, parlava di “autobiografia rischiosissima, immaginaria e reale a un tempo”, col suo stile ammaliante e urticante, sempre provocatorio. Sospeso tra il sublime paradosso letterario e il velenoso regolamento di conti con colleghi, amici e avversari. Perciò lo prenderei con le molle, anche se è vero che ogni autobiografia racchiude verità e fantasia. Nell’introduzione a “Cento giorni” ho scritto che “tutti sappiamo che la memoria è una signora infedele”: nelle autobiografie non va cercata la testimonianza giudiziaria ma la “verità emotiva”, cioè l’autenticità. E’ attraverso la finzione letteraria (il mio primo ricordo a un anno di vita, il dialogo tra i miei genitori in una notte del viaggio di nozze e in tante ri-costruzioni in cui, ovviamente, non potevo essere presente o ricordare direttamente) che sono riuscito a esprimere meglio i miei sentimenti, la mia personalissima “verità” su di me e sulla mia famiglia. Insomma, per quanto sembri paradossale, è proprio utilizzando la suggestione romanzesca e l’invenzione che si può approdare a una verità più profonda, restando a tutti gli effetti nel “reality writing” e nel paradigma del “patto autobiografico” di Lejeune. Il tema “verità/finzione” è straordinariamente complesso e strettamente connesso al funzionamento della memoria. Per quanti volessero farsene almeno un’idea, nella variegata bibliografia, consiglierei la lettura di un saggio importante e di semplice lettura di un autore olandese, Douwe Draaisma, “Perché la vita accelera con l’età”, davvero illuminante.
Che ruolo ha avuto la psicanalisi nella sua opera?
Fondamentale. Se non avessi ripercorso e affrontato in analisi, molti anni prima, la mia storia, bevuto e vomitato in gran parte il calice di “certi” vissuti, non sarei stato in grado di utilizzare nell’autobiografia quella cifra stilistica “leggera” e ironica che mi è stata attribuita. Il gorgo della pesantezza e dell’ossessività, ne sono certo, avrebbe risucchiato anche me. Nicoletta Polla Mattiot, condirettore del settimanale Grazia, nel recensire il libro sul suo blog “Ascoltare il silenzio”, ha scritto, e le sono molto grato, che “l’ironia è qualità ben diversa dall’intrattenimento sagace. L’ironia appartiene o a chi ha molto sofferto o a chi è molto saggio (e spesso le due cose si tengono per mano), è il dono di chi sa che la vita è materia serissima e proprio per questo va trattata con delicatezza, avvicinata con la mano leggera dello sminatore”(proprio oggi è uscita una segnalazione del libro su Grazia, nella rubrica di Valeria Parrella) Senza l’elaborazione della sofferenza, fatta in analisi, sarebbe stato un libro diverso. Eppure è stata l’autobiografia, più che la psicoanalisi, a farmi ritrovare le mie radici e a riconciliarmi con la mia infanzia.
Ci sono dei particolari riferimenti letterari a cui si è ispirato?
Tutti i libri di cui mi sono nutrito. Ma i miei autori preferiti, Philiph Roth, Mordecai Richler, Eduardo, Tabucchi, Calvino, il primo Villaggio di Fantozzi (sì, proprio lui, non fatevi venire gli stranguglioni!), Gadda, Marquez e cento altri sono troppo in alto per “aspirare a ispirarcisi”. Non è facile far circolare un’autobiografia oltre la cerchia degli amici e parenti o degli addetti ai lavori. Devi trovare una chiave di scrittura che faciliti la lettura e solleciti “risonanze” più generali. E’ da quando mi sono accostato per la prima volta alle storie di vita che ho capito che tocca sforzarsi di render digeribile quel che si scrive, per il semplice fatto che quasi tutte quelle che andavo leggendo, anche per la loro pesantezza, dopo un po’ mi annoiavano a morte. E mi facevano ronzare in testa le parole feroci di Beckett in Finale di partita: “Non c’è nulla di più comico dell’infelicità”. Forse è vero che la scrittura nasce da una ferita, ma è certo che per scrivere non basta il dolore ma, come diceva Bukowski, ci vuole uno scrittore. Chi scrive di sé o raccoglie storie altrui, per quel che ne so, dovrebbe tenerle presente queste cose, se ha l’ambizione di farsi leggere. Però anche quello bravino ( e non so se è il mio caso), quello che un po’ se la cava a combinare parole e immagini, meglio che non insegua troppe chimere e che non faccia la ruota, la letteratura è un’altra cosa.
Da cosa nasce il suo rapporto con la scrittura, è un bisogno, un rifugio o cos’altro?
Dalla ricerca della felicità, perché nella scrittura, a volte, si trova. Ho cominciato a diciotto anni, scrivendo canzoni.
È cambiato qualcosa nel rapporto con se stesso dopo che ha ultimato Cento giorni sul comò? Ha scoperto qualcosa di nuovo o inaspettato?
La sensazione è stata quella di aver finalmente voltato pagina. Ho trovato il coraggio di mettermi a nudo, di non vergognarmi più di ogni piega della mia storia. Un senso di grande libertà e liberazione. Un esercizio parresiastico. Uscire dalle costrizioni e ipocrisie borghesi che mettono in un angolo il privato per il terrore del confronto e dello smascheramento, camuffando il tutto dietro “il nobile pudore dei sentimenti”. Devi rischiare lo sputtanamento, con te stesso e con gli altri, se davvero vuoi fare i conti con la tua storia, se davvero vuoi far passare “il passato che non passa”.
C’è un messaggio che il suo lettore vorrebbe cogliesse?
Sì, che raccontarsi fa bene, anche se non è proprio come svernare in riviera: il percorso ha le sue montagne russe, le sue trappole e le sue meraviglie, ma senza orma di dubbio ogni vita vale una storia degna di essere raccontata.