Felici come mosche in un paese di stitici
Lo spirito ironico-parodistico di un Volume acquistabile senza obbligo di ricetta medica
La satira, anche quando si offre come leggiadra critica di costume, dà sempre adito ad amare riflessioni. E ad amare riflessioni è indotto il lettore del quarto libro di Igor Righetti, Felici come mosche in un paese di stitici, DeAgostini, 2009. Gli aspetti serio-comici della realtà quotidiana sono dall’autore giocosamente evidenziati: i difetti, i vizi, le manie degli Italiani ricolmano il piatto della satura.
Uno degli antecedenti letterari che può venire in mente per la comune aggressione alla propria modernità è Pietro Aretino, l’irriverente scrittore rinascimentale, avventuriero della penna, che si oppose al conformismo delle corti, così come Righetti si oppone ai falsi moralismi; che comprese l’importanza della stampa, così come Righetti coglie quella della radio: “In radio veritas, la parola alla parola”. Le analogie terminano comunque con queste considerazioni, dal momento che l’uno fu un vero e proprio opportunista, al servizio di chi meglio lo pagava, mentre Felici come mosche in un paese di stitici include presupposti assolutamente morali.
La satira non va innanzitutto confusa con la volgarità: “La volgarità non accelera nulla, caso mai frena anche se viviamo in una società sempre più becera e volgare. Adoro la satira, non la volgarità gratuita spacciata per satira […]” (p. 221). Quindi più che riferirsi ad Aretino, a Folengo, al Ruzzante, a Rabelais, sembrano più opportuni altri nomi, quello di Parini, ad esempio. Parini amava infatti la nobiltà che pure ridicolizzava, e facendolo aveva il fine di redimerla, educarla; così Righetti non smaschera, denigrandolo sarcasticamente, un modo di essere, se non nella speranza di contribuire alla sua correzione. Se denuncia la maleducazione di un padre di famiglia alla cassa di un supermercato è perché spera possa non esistere più l’inciviltà di “persone che non fanno crescere l’Italia” rendendola “un paese da quarto mondo” (p. 107); se accusa la televisione: “Ma in tv non regnano soltanto tronisti, veline, game show a base di migliaia d!
i euro, talk show tutti uguali e spesso con lo stesso argomento nella stessa sera […]” (p. 74), lo fa con la consapevolezza che i programmi potrebbero essere ben diversi, non contribuendo a produrre… l’“aria fritta” che purtroppo è entrata a far “parte della nostra vita e ha trasformato la superficialità in valore.” (p. 97); se ironizza sull’abuso di creme di bellezza (cfr. p 102) è perché vorrebbe che il culto della sostanza prendesse il sopravvento su quello dell’immagine.
L’affinità dei contenuti potrebbe anche avvicinarci a quel grande che è stato Pier Paolo Pasolini che pure, tra le altre, ha mosso pesanti accuse alla televisione, al centralismo dei consumi che “ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza.” (“Corriere della Sera”, 9 dicembre 1973). Ma Pasolini, denunciando il negativo, è approdato a un’utopia del mito, e certo non si è servito, per le sue denunce, della satira.
Il riso amaro che la satira di Igor Righetti genera ha invece sapore leopardiano: “E’ molto facile lo scherzare sulle cose straordinarie, sui difetti del corpo ec. La difficoltà consiste nel saper muovere a riso sulle cose ordinarie.” (Zibaldone, 1774) e l’ordinario, non il sorprendente, è l’oggetto di Felici come mosche in un paese di stitici. Al riso sopra ogni cosa ha invitato Leopardi, non solo perché “Tanto l’uomo è gradito e fa fortuna nella conversazione e nella vita, quanto ei sa ridere” (Zibaldone, 3360), quanto perché “Terribile ed awful è la potenza del riso” (Zibaldone, 4391), una potenza nella quale, evidentemente, Righetti crede.
“La parola è preziosa e bisogna saperla usare” (p 64) è una delle espressioni che rivelano come i “Pensieri Comunicattivi” dell’autore siano sapientemente organizzati in una prosa che ovunque attesta l’amore per la lingua. Si comprende bene cosa nascondano pensieri del tipo: “Ho visto il video che hai uplodato su YouTube e ti ho inviato l’add sul tuo Space per entrare nella tua community. Poi ho postato il commento sul tuo blog dal browser del mio cell., con la speranza di non essere andato off-topic. Ho visto anche la gallery su Flickr con le foto del tuo ultimo viaggio e googlando ho trovato anche la tua pagina su Facebook” (p. 195). Ma se non lo avessimo compreso è lo stesso Righetti a rivelarcelo: “Nell’era in cui c’è il ritorno al biologico e al naturale la comunicazione e il linguaggio sono invece sempre più artefatti.” (p. 112)
Certo, sorridiamo leggendo! Ma ricordiamo anche che fu a causa dei tempi che Giovenale confessò “difficile est saturam non scribere”; ricordiamo la satira di Aristofane che, volta alla pace, aveva previsto che le legioni romane avrebbero invaso la sua patria, e anche quella di Breckt che, con Turandot, accusò gli intellettuali degli anni ’30 di essere stati incapaci di comprendere a quali conseguenze avrebbe portato l’ascesa al potere dell’”Imbianchino”. E noi…, a cosa andremo incontro?: “A quando gli yogurt alla mortadella e al prosciutto?” (p. 49).
Norma Stramucci