Hostia – L’innocenza del male | Federico Bonadonna
Il male è male. Il bene è il bene. I buoni sono buoni e i cattivi rimangono sempre cattivi.
Una divisione netta marcata inderogabile. Nulla deve essere declinato in sfumature che potrebbero dare adito a giustificazioni, accettazioni o compromessi nocivi per un equilibrio perfetto.
Una codifica, questa, che ben presto nella vita di ognuno di noi va a perdersi, quando atti cogenti, imprevisti ed inattesi iniziano a manifestarsi nel quotidiano vivere confonendolo .
La realtà, già di per sé mutevole, si fa distorta materia di vita reale.
Gli atti e i rapporti con gli altri si rimodulano in modo inaspettato.
Uomini e donne si fanno violenti, il degrado sociale si fa protagonista, l’amore genitoriale si trasforma, “deviato”, incapace di manifestarsi probo. Ed accade che il reale più fragile, quello dei bambini, divenga vittima inerme e indifesa di quella libertà dell’adulto, che rivendica il potere di fare, o meglio di rifare, ciò che gli è stato fatto poichè
“Libertà è ciò che fai di quello che ti è stato fatto”
Jean Paul Satre
Puro atto di “libertas” (fisica o morale), fatto, però, di una brutalità che si fa disagio, dolore, perdita e che colloca colui che la subisce in quel confine tra sano, insano, soggiogato, “Vittima”,” Hostia” di quell’innocente rapporto d’affetto che divine “male”- affetto.
Su questa linea di confine senza filtri o edulcorazioni, si colloca la storia di Martino ed Emma protagonisti diversamente paralleli del romanzo di Federico Bonadonna edita da Round Robin (2018), “Hostia – L’innocenza del male” tra la selezione dei romanzi per il Premio Strega 2019.
Ma chi sono Martina ed Emma?
Un uomo e una bambina.
Martino Carli, psicologo quarantino, è il giovane direttore in un centro sociale nella periferia romana della metà degli anni ’80.
Emma Solpetti è una bambina di 7 anni capace di masturbarsi a sangue, che parla ora con un orsacchiotto, ora con una sorella immaginaria (lo sarà davvero?) Annalisa, che spesso giocherella con le lumache e che arriva accompagnata dalla madre urlante Valeria nel centro sociale.
Valeria, tossicomane che si guadagna la dose vendendo se stessa, vuole disfarsi di lei, abbandonandola come si abbandona in cane sul margine della strada. È convinta che la figlia sia posseduta, ingestibile per il suo masturbarsi a sangue e per quel suo attaccamento al padre Sandro più dentro che fuori il “gabbio”.
Anche Martino ha con la madre Luisa (alcolizzata ai limiti della pazzia), un rapporto assai particolare. Il loro rapporto è fatto di pura simbiosi e oppressione opprimente ai limiti del malato e non a caso lo ha reso insicuro (si rosicchia le unghie in modo maniacale) acerbo nelle relazioni (con la fidanzata Lorenza figlia di una famiglia neo fascista) con una vita in bilico (vive su di una barca gallegiante sul Tevere).
Difficile, invece, è il rapporto con il padre “compagno” Carlo con cui riesce a scambiare solo poche parole, balbettando.
L’incontro tra Martino ed Emma da casuale, con le caratteristiche del semplice intervento di allontanamento di una bambina da un mondo che le fa violenza, si fa piccola fiammella alimentatrice di lati oscuti di vita e dell’infanzia dimenticata, soggiogata ed assolutamente colpevole dello psicologo .
Paure ancestrali legate a quel mondo “apparentemente perfetto della famiglia” risorgono, rivelatrici di vulnerabilità tali da spingere Martino nuovamente alla psicanalisi (abbandonata nel periodo degli studi) per trovare i bandoli di quella troppo intricata e sfilacciata matassa di cui è fatta la sua vita.
La malattia finale della madre soggiogatrice Luisa, e lo scoprire ogni singolo atto della vita violenta di Emma si riveleranno perni, passaggi, puntelli di uan liberazione reale, passaggio da “vittima sacrificale” a uomo diversamente libero e capace di ritrovare (forse) un rapporto con il padre .
Sarà così, anche se con tasselli più traumatici, per Emma. Per entrambi varrà, comunque, la regola del correre e ripercorrere gli atti fatti loro, in una infinita ripetizione che è demonizzante di quel terrore limitante che fa deboli e forti.
Hostia è senza dubbio un racconto sinusoidale , che alterna registri diversi di narrazione e di avvenimenti, senza mai sfociare nell’accusa, nello sproloquio o nel dare “giudizi”.
I capitoli brevi ma non stringati chiari ma non banali fatti di una scrittura semplice lineare danno alla storia una palese e forte “valenza cinematografica”.
Bonadonna racconta, a modo di teatro, la vita dei margini periferici laziali: rimasugli evoluti di quelle “borgate” di pasoliniana memoria dove indecifrabili e indecifrate leggi urbanistiche, mosse dal solo profitto, hanno alienato l’esigenza di vita comune e di comunità a favore di un isolamento programmato di vite difficili nate per essere violente.
Vissuti fatti di sbilanciamenti emotivi netti e a volte incontrollati che mescolano le vittime semplici (i bambini) a vittime complesse (adulti) trasformate loro malgrado in “carnefici”, capaci di ricodificare il più centrale e condiviso dei rapporti umani: quello genitoriale.
Genitori che avvolgono e si avvalgono di una genitorialità diversa che si fa potere e padronanza indiscussa delle sorti di coloro che hanno generato, rimodulando e rivendicando un male a loro stessi, fatto da altri.
Emma e Martino (in modi e tempi diversi) si rivelano paralleli speculari di atti di violenza fisica e dell’animo.
“Vittime”, Hostiae sacrificali, esposti a quella empatia del dolore capace di annientare, di portare (come accade per le rispettive madri Luisa e Valeria) all’autodistruzione.
L’incrociarsi delle esistenze dell’uomo e della bimba si rivelano salvifiche trasformando la sofferenza in resilienza rivelatrice di fantasmi, ossessioni e paure, che così trasformate possono essere dominate e non più dominanti.
La paura è, però, generatrice anche e soprattutto di dolore.
Queste due entità dell’anima (se mescolate assieme) offrono una strana sensazione di libertà.
Una libertà dolce, salata, che appiccica. Che sa di salmastro. Che vuole creare da un uomo buono un uomo cattivo.
Sarà quello, allora, il momento di decidere, per uomo o donna, cosa voler fare del tempo che viene loro concesso: vivere “come riflesso” di atti ripetuti oppure di tentare di fare della propria vita un piccolo sogno.
Un sogno di certo fragile, ma autentico, incerto ma evidente di diversa libertà che non opprime, non lede non soffoca, ma che chiede solo di essere ciò che vorremo in qualche modo essere:
“Please Please Please Let Me Get What I Want”
The Smith
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