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Perdutamente | Ida Amlesù

Perdutamente

Ognuno di noi, almeno una volta, ha percepito di essere perdutamente smarrito, nella vita, nell’amore o in se stesso. Insoddisfatto, inadeguato in un vivere piovutogli addosso e al cui bandolo non riesce a dare forma, motivo o spessore, percependosi insipido e convinto di dover subire passivamente modifiche e imposizioni esterne.

Essere smarriti e disorientati in una vita che somiglia decisamente a un labirinto non è certo l’ideale: evidente, infatti, è il pericolo di diventarne prigionieri definitivi, in corridoi aggrovigliati e senza uscita. Così, nel tentativo di districarsi, questi ci paiono annodarsi sempre di più, quasi fossero garbugli inestricabili, che spingono verso quello che sembra essere un sentiero senza via d’uscita, con una sola, possibile, definitiva soluzione, ineluttabile da gestirsi in totale autonomia: il suicidio.

Quando poi ci accorgiamo che quel tessuto di “vita” che sembrava impermeabile e perfetto ha un filo pendente, che altro non è se non il bandolo che tempo reggevamo tra le mani, senza sapere cosa farcene, l’istinto inevitabilmente prende il sopravvento e ci spinge a tirare.

La trama si allenta, si disgrega e rende velocemente visibili le particolarità di quel vivere che prima ci erano celate dalla convinzione di essere imperfetti. Avvolgere quel filo in un gomitolo diventa la chiave di lettura di quel disordine apparente che è accettazione di imperfezioni fisiche ed emotive, di scelte e convinzioni perfettibili da non ripudiare, nascondere o sopprimere ma da rivalutare nella loro unicità.

In questo itinerario di scoperta, crescita, accettazione, dubbio e suicidio (forse) proprio di ognuno di noi (e anche dell’autrice),  Ida Amlesù snoda la trama ai limiti del vero, dell’immaginato e del presunto nella sua promettente opera prima edita da Nottetempo “Perdutamente”.

Con il suo romanzo suddiviso in tre Atti (La vita vera – Discesa tra i dolori – Perduta stante) con due Intermezzi, vere e proprie sospensioni di non vita, l’autrice ci presenta (e si presenta) una protagonista che non ha nome, che non si descrive se non nei tratti che gli altri deprezzano di lei e che racconta la sua vita in frammenti apparentemente disconnessi, mossi quasi a caso, ma nettamente lineari come gocce diversamente cadute in una tinozza che si ritrovano a comporre organicamente l’ugualità della loro origine, componendo pagine non bianche ma reali di vita.

Ottantatré

“Non saprei dirvi come si fossero incontrati. Mio padre allora percorreva sentieri di sogni stinti e pattini a rotelle….”
“Mia madre invece amava i piedi per terra, accarezzare il suolo con le immancabili pantofole.”

Nata da genitori anticonformisti che, dell’amore, amano forse il moto delle sensazioni che esso produce più che il viverlo fino in fondo come un sentimento complesso, la “protagonista” fin da piccola vive un’esistenza disorientata dove realtà, fantasia, sogno apparente e reale si combinano sostituendosi e intrecciandosi secondo il “momento”.
I punti fermi si confondono e si mischiano: da un lato un padre inconsistente, quasi fosse una figura “cartonata”, dall’altro una madre che nel non far mancare nulla alla propria figlia, le nega inconsapevolmente l’amore e la certezza di sentirsi accolta, amata e, soprattutto, voluta.

Questo vivere sentimental-familiare frammentato non rende facile l’infanzia alla prima attrice della storia, che così spezzettata e ineguale, si riconosce solo  nelle proprie imperfezioni messe a confronto con le perfezioni degli altri, che diventano parti da incastrare in quel tetris che è la realtà. La sua realtà…fatta di pagine bianche il cui vivere sconclusionato, senza capo né coda ha un solo frammento di memoria di “famiglia normale”: una gita al mare, con un canotto assieme alla madre e al padre, ricordo che, lentamente e inesorabilmente va sfocandosi…

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Il suo disequilibrio non sarà aiutato nemmeno dall’amore che la raggiungerà alle soglie della giovinezza.
Volodja, musicista diabolico e inconsistente nel sentimento e nella presenza, di cui si innamora (o forse se lo impone) la spingerà alla fuga da casa verso Mosca, dove la protagonista si ritroverà a custodire il loro alloggio durante le lunghe assenze dell’uomo, arricchendo i proprio vuoti con dialoghi silenti e immaginati.

L’essere a Mosca, aver seguito Volodja, credere di parlare con Marx come a un confidente, non le è assolutamente d’aiuto, ma la spinge alle porte del suicidio e al tedio (degna alternativa), convinta di essere un inutile orpello di presunte esistenze altrui.

Ma la vita è un turbine inaspettato di incontri imprevisti.

Una passeggiata nel parco, spunto coraggioso per imporsi la fine definitiva, propone il più imprevedibile di tutti i dubbi, che la obbliga a una presa di coscienza: la scelta tra il dovere vivere e il morire “in autonomia”.

Davanti a questo bivio eterno, la “protagonista” non saprà che fare,  domandandosi quale possa essere il sentiero da imboccare: nel precario equilibrio tra imperfezione e solitudine, tra essere perdutamente sola e ambire alla ricerca di quella “mancanza” di qualcosa che perduta-stante è l’amore.

 Da Perduta – mente a Perduta – stante

La storia, un’opera prima sui generis, si presenta al lettore esile, imprevedibile, fresca, ironica alle volte sarcastica. La narrazione ha i tratti del surreale, composta da frammenti, indefiniti perimetri di memoria che riemergono da uno spazio atemporale confuso e disordinato che si rivelano, però, essere ossatura emozionale e reale del racconto.

Tutto è condensato ed analizzato. La scelta della parola minuziosa ricca di riferimenti letterari, soprattutto della tradizione russa, sono elemento di ogni pagina del romanzo che accoglie empaticamente il lettore, invitandolo a seguire la protagonista nella sua necessità di colmare la mancanza di amare e di amore, che culmina nel “sorriso liberatorio” di comprensione e solitudine, puntello di accettazione e supporto del sé.

Nella ricerca del sé, tra sentimento  e “dovere” di vivere della protagonista,  si evidenzia quella presa di coscienza dei propri limiti che è comprensione delle sconfitte, accettazione dell’imperfetto, chiave di lettura di vita.

L’insieme di questi appigli “condivisi”, supportano la scelta dell’autrice nel “non nome” della protagonista: lasciandola ignota, tale da potersi identificare, forse, con l’autrice e magari, anche, con “ogni lettore”.

Tutti aspetti, che avvicinano Perdutamente al “romanzo di formazione”, ma che sono capaci di andare oltre, riuscendo, come in uno spartito musicale ben tarato, a intercalare in modo intonato i vari registri della letteratura: dalla commedia, alla metafora, alla citazione dotta letteraria.

Propone, infatti, la presa di coscienza di quella parte di “necessità” che la vita inevitabilmente impone: il dovere di Vivere, che non si riduce in un “subirne passivamente” gli eventi, ma spesso impone di far diventare negatività e positività vettori attivi di soluzioni e risposte. Dove l’accettazione è solo un attimo per definire la prossima mossa, la successiva decisione, la definitiva scelta.

Come in una partita a scacchi (che l’autrice ripropone in una fine citazione) dove ogni mossa può portare allo scacco matto (“definitiva” rinuncia/fuga dal vivere, il suicidio), ma anche a una nuova apertura, o arrocco verso nuove soluzioni di gioco che possano portare a nuove strategie di sopravvivenza vicine al vero esistere: difficile da vivere con coraggio, per impedirne l’implosione in quell’epica sofferenza fatta di rimpianti, disillusioni e rinunce.

Autore: Marzia Perini

Scrivere, leggere due aspetti palesi di un'unica passione: la letteratura. Alterno scrittura originale (racconti, poesie, resoconti letterari) a recensioni librarie. Completano il quadro personale altre due passioni più "movimentate" , ma che si intrecciano e completano le precedenti: la fotografia con mostre dedicate a Roma Bergamo e Venezia e i viaggi (solidali e non). Sono Accredited Press al festival di Pordenonelegge dal 2015.

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