“Riflessioni sulla pena di morte”- Albert Camus
“Réflexions sur la guillotine” viene pubblicato in Francia nel 1957 due anni dopo il libro dell’inglese Arthur Koestler ” Reflections on hanging“. L’opera fu tradotta in francese e Camus ne scrisse il saggio introduttivo. L’edizione in italiano del solo saggio di Camus è del 1958, curata da Longanesi. Camus (1913-1960) filosofo esistenzialista, scrittore e saggista, vinse il Nobel per la Letteratura nel 1957. Le sue opere gravitano intorno al tema centrale dell’esistenza come turbamento dominato dall’irrazionalità dell’assurdo anche se l’esito non è pessimistico come le premesse, Camus individua comunque uno scopo che è quello di combattere le ingiustizie: “Unico scopo dell’esistenza: combattere le ingiustizie e la poca umanità.” In questo contesto si colloca la sua aperta condanna della pena di morte, infatti scrive:
“Se la natura condanna a morte l’uomo, che almeno l’uomo non lo faccia”.
Le “Riflessioni sulla pena di morte” seguono un percorso già tracciato da pensatori come Beccaria e Hugo, ma Camus scrive il suo libro in Francia, ovvero nella nazione che aveva inventato la ghigliottina e che durante la sua più famosa Rivoluzione ha fatto cadere più teste che in altre parti d’Europa. Inoltre, cosa che molti non sanno, la pena di morte venne abolita in Francia solo nel 1981, ciò nonostante molti partiti continuarono a chiederne la reintroduzione negli anni fra il 1984 e il 1995; solo nel 2007 è stata esclusa dalla Costituzione per renderne pressoché impossibile il ripristino. Tutto ciò per dire che nel 1957 i sostenitori della pena di morte erano ben più numerosi dei nostalgici di adesso. Camus, dopo aver, con malcelata vergogna, fatto notare ai lettori che solo Inghilterra e Spagna conservano, insieme alla Francia, la pena di morte e dopo aver apertamente ritenuto responsabile l’ignoranza dell’opinione pubblica, afferma di voler parlare crudamente delle modalità con cui la pena viene eseguita. Per taluni la pena di morte sarebbe necessaria quale deterrente contro il crimine se non fosse invece vero che, nonostante la sua reiterata applicazione, fin dalla mosaica legge del taglione, l’entità del crimine non è stata assolutamente ridotta. Nel XVIII secolo in Francia si tentò di mitigare la sofferenza dell’esecuzione, difatti il dottor Guillotin sosteneva che il condannato avrebbe sentito solo una “lieve frescura sul collo“, ma non era così. Camus, con un linguaggio chiaro e brutalmente particolareggiato, descrive i momenti immediatamente successivi al taglio della testa e di sicuro non sarà facile per nessuno dimenticare le righe che parlano della testa mozzata che ancora rispondeva pronunciando il proprio nome a chi gli chiedeva come si chiamasse. Forse si tratta di un’esagerazione voluta, forse no, ma di sicuro lo studio di metodi più veloci e meno dolorosi per dare la morte deve pur avere una logica, purtroppo nessun metodo potrà mai rivelarsi pienamente rispondente allo scopo perché ciò che di più penoso ci sia, più della stessa esecuzione, è l’attesa dell’esecuzione stessa. Riflettiamo: anche l’assassino più spietato, ammesso che il delitto venga premeditato, lo farà senza che la vittima ne sia informata e consapevole. Solo i condannati a morte sanno già di dover morire e sono sottoposti alla tortura ulteriore di dover attendere, negandogli anche l’indicazione precisa di quando la condanna verrà eseguita. Altro paradosso è che la pena capitale, che dovrebbe essere esempio e monito per non agire in modo da essere condannati, spesso si consuma in assenza di pubblico, perdendo così la sola ragione che ne giustificherebbe il valore. Dunque, sembra logico concludere che si tratti di un’azione spinta da desiderio di vendetta o dalla presunzione che un delinquente non possa in nessun modo redimersi, ma ciò non è possibile affermarlo aprioristicamente. Si tratta di una convinzione che mostra solo la presunzione di una parte di una umanità che osa credere di potersi ergere a giudice di se stessa. Camus, nelle ultime pagine, si rivolge direttamente al governo francese esortandolo a farsi promotore di un percorso di civilizzazione che spinga anche gli altri paesi non abolizionisti a smascherare il vero volto della pena di morte: un macello, un atto efferato di inaudita barbarie che fa retrocedere la storia e ostacola l’affermarsi di una nuova e più umana concezione della nostra stessa umanità. Ad oltre cinquant’anni dal libro di Camus, almeno in Europa, la pena di morte è stata definitivamente abolita, ma in altre parti del mondo viene ancora praticata, forse con modalità nuove che ridurranno probabilmente la sofferenza degli ultimi istanti ma non lo spasimo dell’attesa. E’ soprattutto a quello che Camus pensava quando scriveva:
“Non vi sarà pace durevole né nel cuore degli uomini né nei costumi della società sin quando la morte non verrà posta fuori legge”.
Il cammino è ancora lungo, da questa meta siamo ancora molto lontani e forse non la raggiungeremo mai. Libro consigliato a chi non teme interrogativi veri e profondi, a tutti gli insegnanti, ai genitori, alle giovani generazioni e a tutti coloro che vogliano tentare di educare e offrire un contributo al progresso autentico dell’umanità.