“Adua” vita somala a Roma tra immigrazione e rimorso
Negro! Con quanto disprezzo nella voce. Negro! nell’Italia fascista e giù botte, pugni e calci a Zoppe, padre di “Adua“, donna somala trasferita a Roma, nell’originale e omonimo romanzo, pubblicato da Giunti e scritto da Igiaba Scego, scrittrice italiana di origini somale e laureata alla Sapienza in letterature straniere. Originale, perchè mai una vicenda simile era stata proposta dal punto di vista di chi ha un colore diverso, come Adua, come il padre, costretto a raggiungere la capitale del non ancora costituto impero, nel 1934, per fare da interprete e traduttore. Certo, ce ne ha messo anche del suo per finire in pasto ai razzisti, visto che in Somalia voleva assolutamente assicurarsi una vita agiata e farsi rispettare da tutti – dovranno inginocchiarsi ai miei piedi – a costo di servire i padroni bianchi della colonia, gli Italiani. La ragazza, che porta il nome della più grande vittoria degli africani contro l’imperialismo, non ama suo padre. L’ha sradicata negli anni Sessanta dai buoni genitori adottivi, nomadi nella savana. Da parte sua, lui la trova ribelle, risentita, proprio come la madre Asha la Temeraria, morta di parto. Un romanzo di sensi di colpa, del padre per lei, di lei per il padre, del mondo civile per lo schiavismo, dell’Occidente e per il colonialismo; di nostalgia, per la Somalia lontana; di rabbia civile, per un mondo nel quale colore è ancora una parola difficile ed è quanto meno doloroso sentirsi chiamare anche solo nera, per strada. Il romanzo è costruito a due voci. Quella di Mohamed, detto Zoppe perchè da bambino ha avuto la polio e zoppica, si avvicenda a capitoli alterni ai pensieri di Adua, ora poco meno che settantenne. Lei racconta eventi ed esterna considerazioni all’elefantino di marmo di piazza Santa Maria sopra Minerva, a Roma, tra Largo Argentina e il Pantheon. Il piccolo pachiderma che regge l’obelisco più corto del mondo è il confidente della donna. Sostituisce Lul, la connazionale salda e sicura che le garantiva sostegno e conforto, prima di fare ritorno in Somalia. Nel 1991 è scoppiata la guerra civile nel loro Paese. Nel 2013 sta scoppiando la pace e ha tutta l’aria di essere un buon affare, business, l’idea fissa di tutti i Somali, adesso che là c’è il petrolio ed è arrivata la ricchezza. A Mogadiscio è tutto più caro, una bolla ha spinto in alto i valori immobiliari, la vecchia casa vale un milione di dollari. Un romanzo di denuncia sociale: l’orrore dell’infibulazione. Di attualità: l’immigrazione. Adua ha sposato un clandestino, sbarcato a Lampedusa, un balordo che ha sottratto alla strada e alle bottiglie di pessimo gin con le quali si accompagnava. Gli ha dato un tetto, un piatto, un presente che non ricorda il passato e cerca di non interrogarsi sul futuro. Si stanno dando un passaggio nella vita, una all’altro. Quando litigano – e lo fanno sempre più spesso – lo chiama Titanic e lui Vecchia Lira, perchè arrivata in Italia tanto tempo prima, attratta dal miraggio del cinema. Voleva diventare la nuova Marilyn marroncino ed è caduta in braccio a sfruttatori che vedevano solo il suo corpo esotico. Usata e gettata: ha girato un solo film, “Femina somala”, pellicola da terza serie, un quasi porno sulla spiaggia di Capocotta, campione d’incassi nel 1977 e ancora in proiezione di notte sulle antenne locali. Chissà se il padre ha mai visto il film? La prima in Somalia non si è mai tenuta. Qualcuno ha pagato tre incassi al gestore per cancellare la programmazione. Tanto valevo, pensa, tre incassi? Adua, figlia di Asha la coraggiosa e di Zoppe, l’uomo che serviva i padroni che avrebbe voluto rovesciare, a Roma non ha nessuno, a parte Titanic, Ahmed, come riesce a chiamarlo solo a fine romanzo. Adua e Zoppe, che si vanta di potersi far chiamare Hagi, santone, visto che da bambino ha imparato a leggere le viscere degli animali. Adua e Lul, che la chiama e insiste perchè la raggiunga in Somalia, dove si vive in pace, si fanno guadagni, tanti soldi. Il tempo di fare affari è questo, ora, non domani. Un romanzo di solitudini tra tanta gente e il paziente elefantino del Bernini, con le grandi orecchie capaci. Guarda la negra, parla da sola, dicono i passanti. Lei li sente, ma continua a rivolgersi all’animale, il solo rimasto ad ascoltarla, in piazza, davanti alla chiesa. Arriva dall’Oceano Indiano, come lei. E chissà se come lei si sente dimenticato dal modo.