Internati nei lager tedeschi, schiavi di Hitler nel 1943-45
A 19 anni, non si finirebbe mai di mangiare. A quell’età, il futuro è ancora tutto davanti, non si pensa che la vita possa finire in un niente. La morte sembra lontana, un’ipotesi remota. Da ragazzi – fino al 1975 si diventava maggiorenni solo a 21 anni – è ancora più crudele affrontare la fame e il freddo del Centro Europa, glaciale per un pugliese abituato al sole. Gli stenti e la morte, costantemente accanto.
Oggi Nicola Santoro è un novantenne in gamba, perché ha dovuto affrontare tanto, settantanni fa, che la vita seguente non gli ha fatto paura. Ed ha una lezione da impartire ai giovani, quella che ha imparato a sue spese, nel 1943, quando si è ritrovato da un giorno all’altro schiavo di Hitler, senza più dignità di uomo e di militare.
Mai più guerre: quell’esperienza terribile non si deve ripetere. Per diffondere maggiormente la sua testimonianza, ha scritto un libro, “Internato 159534” (Il Raggio Verde edizioni, Lecce, 212 pagine 15 euro) nel quale ha proposto anche il diario di Fernando Simeoni, marinaio, internato come lui nei lager nazisti, scomparso nel 2010.
La storia di Nicola
Dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati, l’8 settembre 1943, il giovane “Nicolino”, marconista del Genio Militare dell’Esercito, a Udine, si ritrovò nelle mani dei tedeschi, con altri seicentomila compagni di prigionia. Senza saperlo, senza capirlo, senza essere informati, si ritrovarono di colpo le armi della Wermacht spianate contro. Furono stivati nei carri merci e condotti sotto scorta dura in Germania, attraverso il Brennero. Non erano nemmeno prigionieri di guerra e quindi non potevano invocare la pur modesta protezione della Convenzione di Ginevra del 1864. I nazisti non li consideravano combattenti di un esercito nemico, ma soldati di un Paese che li aveva traditi, passando con gli avversari. Non PW (prisoner of war), erano solo IMI (Internati militari italiani), potevano essere addetti al lavoro forzato, a vantaggio dell’industria bellica germanica.
Da Cursi, un paesino a 30 km da Lecce, a Udine le distanze erano già enormi. Un’altra Italia il Friuli, rispetto al Salento. Dal Meridione a Treuenbrietzen, nel Brandeburgo, era un altro mondo. Nicola e Fernando sono rimasti due anni nel campo di lavoro in Prussia, nutriti a brodaglia anemica, un chilo di pane da dividere in quindici reclusi, materassi di trucioli di legno. E urla, spintoni, botte, alla minima mancanza. Resistette fino all’arrivo delle truppe sovietiche, che aprirono i cancelli anche di quei lager. Partito dal campo il 27 aprile 1945 (fino a Villach a piedi, per centinaia di chilometri), arrivò a casa il 29 giugno.
Santoro ha scritto il volume anche per mandare un massaggio a chi conta, a quanti hanno un ruolo istituzionale: ogni decisione va presa sempre nel rispetto della vita e della dignità, le persone non possono essere ridotte a numeri, trattate come untermenschen, un sottordine di uomini.
Note biografiche
Secondo di sette figli, Nicola è nato il 22 febbraio 1924. Giovanissimo, è stato arruolato nel 1943. Dopo la liberazione, dal 1948 è stato impiegato e poi dirigente delle Poste. Per 25 anni, dal 1955 al 1975 ha rivestito incarichi elettivi nell’Amministrazione comunale di Cursi.
Fernando Simeoni è nato a Civitavecchia, il 12 dicembre 1923. Era segnalatore della Marina Militare. Pagò un prezzo durissimo alla guerra: al rientro in Italia dalla prigionia, apprese che anche il padre era morto in un bombardamento angloamericano. Fino al collocamento in pensione, mantenne un impiego nel Comando Generale della Scuola di Guerra di Civitavecchia.
Proprio a Treuenbrietzen, 70 km a Sud di Berlino, il 21 aprile 1945, all’arrivo dell’Armata Rossa, le SS massacrarono in una cava di sabbia 127 italiani, fuggiti da una fabbrica di munizioni. Solo cinque superstiti.