Briganti per caso, brigantessa per amore
“Briganti romantici”, titola Silvino Gonzato l’antologia di cinque saggi monografici che ha firmato per Neri Pozza (256 pagine 18 euro). Tanto sentimentali poi non sembrano, soprattutto uno. Malinconici semmai, in qualche momento di sconforto all’addiaccio, nelle grotte e capanni in cui erano costretti dalla vita alla macchia alla quale si erano dati o dovuti dare. “Criminali per caso, non per vocazione, per combattere con le armi le ingiustizie e prevaricazioni di cui erano stati vittime loro, le loro famiglie o le comunità contadine in cui erano vissuti”, dice il giornalista dell’Arena. “Col loro fardello di rancori e odio”, avevano scelto la clandestinità dei boschi, “illusi, da sognatori quali erano, di riuscire a contrapporsi a un mondo che ritenevano iniquo, pensando perfino di poterlo cambiare”. Di romantico c’è la visione dell’autore, perché anche con tanta indulgenza si stenta a trovare romanticherie nelle imboscate di Giovanni Beatrice, Zanzanù (1576-1617), fuorilegge per vendicare il padre ucciso da una famiglia rivale. Una faida interminabile sul lago di Garda, che smaschera una situazione precaria di ordine pubblico nel territorio della Repubblica di Venezia, a cavallo del 1600.
In chiaroscuro e quindi più vicina alla figura del bandito ribelle per scelta ideologica, idealizzata da Gonzato, la vicenda di un altro suddito della Serenissima, Antonio Tosolini, detto Menotto (1759-1794). “Rubava ai ricchi per dare ai poveri”: un Robin Hood del Friuli. Capeggiava una banda nella foresta, per opporsi al conte Valentinis, che schiavizzava i braccianti a Tricesimo per salari da fame. Licenziato, per scarso rendimento quando si era innamorato della giovane Anna, percosso col frustino, Menotto gli si era avventato contro: “Adesso ti ammazzo!”.
Dall’altra parte del Nord, a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, la vita e avventure di Giuseppe Mayno (1780-1806) coprono appena ventisei anni. Nel suo caso c’è una forma di vera resistenza, ai francesi di Napoleone. Arrivarono a porgli sulla testa una taglia di tremila franchi e lui li scherniva facendosi chiamare re di Marengo e imperatore delle Alpi, in spregio all’empereur. Piemontese era anche il Biondìn, un secolo dopo. Buon lavoratore, Francesco Demichelis (1871-1905), carrettiere. Un giovane che curava l’aspetto, sempre elegante, quasi azzimato, una specie di damerino, appassionato di feste di paese e ragazze. Amori passeggeri, mondine, contadine, roba di un’ora. Non pensava al matrimonio, ma nemmeno ad ammazzare nessuno. Aggredito da uno in campagna – la borsa o la vita – aveva reagito lasciandolo percosso ma vivo, per ritrovarsi accusato di avere ucciso un povero viandante: il malintenzionato era stato scambiato per uno per bene. Dall’eccesso di legittima difesa al bosco. Divenne il più ricercato, ma conservò un fondo di generosità verso i poveri e non esaurì le attenzioni per le donne, fino alla morte, in un conflitto a fuoco coi Carabinieri.
Briganti per caso, brigantesse per amore. La casertana Michelina Di Cesare (1841-1868), già vedova di un poco di buono, sposò a ventidue anni di un ex sergente borbonico e capo brigante, senz’altro migliore di quel “tanghero” fannullone e violento del primo marito. Tradita dal fratello della ragazza, la banda venne sorpresa dai soldati. Morirono quasi tutti e i loro corpi vennero esposti ai paesani, anche quello denudato di Michelina, trattata come la druda, dispregiativo di compagna, di Francesco Guerra. Perché chiamarla moglie sarebbe stato riconoscerle rispetto.