Poeti di mandorla amara, intervista a Maria Antonietta D’Onofrio
Poeti di mandorla amara, a tu per tu con Maria Antonietta D’Onofrio, autrice del romanzo edito da Mannarino Editore.
Dove nasce l’idea del romanzo Poeti di mandorla amara e quanto c’è di autobiografico nei personaggi?
Dove e quando nasce l’idea di una storia è davvero difficile dirlo. Ancora più difficile è dire perché nasce una storia. Ma poi c’è il dato di fatto che la storia e lì, nelle pagine, nero su bianco e quasi si racconta da sola, indipendentemente da chi la sta scrivendo. Alla fine credo che le storie siano da sempre dentro di noi e la magia che compie la scrittura è quella di rivelarle a noi stessi e poi agli altri rendendole ad una vita direi sociale, di condivisione. Ma volendo cercare un punto di partenza, direi che è tutto nella prima pagina, nell’incipit di Poeti di mandorla amara : “L’idea arrogante di diventare una storia scritta, l’ho accarezzata esattamente un anno fa, ventuno settembre, primo giorno di un autunno infuocato, ore tre pomeridiane, trentotto gradi, semaforo rosso. Il giovane lavavetri si avvicina e insapona il parabrezza della mia auto. Riconosco tra le piccole onde schiumose il mio vicino di casa.
“Perché sei qui?” gli chiedo abbassando il vetro del finestrino. “Sono nato sbagliato” risponde lui (…) E sempre quel ventuno settembre, rientrata a casa, con affanno e senza ragione, decido di rovistare nella mia memoria conservata nella scatola di cartone, sulla seconda mensola del piccolo ripostiglio. Tra appunti, fotografie, diari, ritagli di giornali, schizzi improbabili di volti di donna, ritrovo…”
In queste poche righe c’è la volontà di affrontare il concetto di “umanità sbagliata” “diversa” , di quel sentirsi “fuori” out, altro dagli altri e in parallelo capire quale sia “l’umanità giusta”, “normale” e ancora capire chi sono i giudici che hanno la presunzione di stabilire con convenzioni, leggi, comportamenti, giudizi, quale sia e cosa sia “la normalità” tra gli esseri umani. Che cosa significa “essere diversi”? Ecco, in quel giorno d’autunno, l’ho chiesto a me stessa e per trovare le risposte, almeno una, ho rovistato tra i miei ricordi, in una specie di ritorno alle origini del mio essere adolescente negli anni settanta che sono stati anni di grandi domande, di lotte, di impegno e anche di belle speranze vissute nella strada e nella scuola, negli scritti di grandi poeti che per queste belle speranze hanno dato anche la vita. Sì, in alcune pagine sono io, in altre sono Filomena, per dirla con le parole di Poeti di mandorla amara, e in altre sono Filly, Filly delle nuvole e tutti gli altri personaggi veri o inventati che siano… tutti, in una specie di coro, concorrono a spalancare davanti ai nostri occhi questa finzione di ciò che chiamiamo semplicemente realtà o normalità, perché reale e normale è ognuno di noi quando e solo riesce ad essere se stesso, libero in una dignità senza sospetto, dispetto e vergogna. Non a caso il libro è dedicato “Alle creature libere di posarsi sul fiore e sulla spina”.
Questo è il suo terzo lavoro, quali sono i temi che lo accomunano a quelli precedenti?
Poeti di mandorla amara è il mio terzo romanzo. Terzo solo per cronologia, amo dire, perché ogni nuovo romanzo è un nuovo esordio, un nuovo “insieme di parole” che liberamente si offrono a chi liberamente vorrà leggerle e magari portarsele nel cuore. C’è, sin dal mio primo romanzo una volontà, forse, di rallentare questo nostro tempo di velocità assurde nelle quali tutto si consuma ancor prima di qualunque comprensione, facendoci arrestare alla porta dell’apparenza dei fatti e delle persone, quando invece dovremmo esercitare la ricerca dell’essenza di quanto ci circonda, di noi stessi e degli altri esseri umani. E posso dire, rileggendo tutti e tre i romanzi, come lettrice e non come autrice, che in ognuno di essi, inseguo questo ideale di “compassione” intesa nel senso etimologico del termine. Quando portai a termine il mio primo romanzo, mi colpirono subito due cose: aver portato a compimento la storia il 4 ottobre, giorno di San Francesco, signore degli umili, e aver scritto la parola “fine” quando una mia paziente mi annunciava la nascita della sua prima bambina. Mi sembrarono subito due segni importanti. Ero una voce sconosciuta e piccola di fronte all’oceano dell’editoria e raccontavo la voce di altri esseri umani, umili e piccoli come me, figure che la storia spesso si lascia alle spalle o che semplicemente ignora. Allora ho deciso che questa era la strada: dare voce a esseri umani non “ascoltati” dal mondo. E qualcuno mi definisce appunto “la scrittrice delle piccole voci” e devo dire che è una definizione che mi piace moltissimo. Sono, inoltre, convinta che il punto di partenza e il punto d’arrivo di questo nostro essere al mondo, sia scoprire il senso della nostra esistenza che è uguale per tutti, indipendentemente dalla condizione sociale e culturale, dall’essere maschi o femmine, adulti o giovani… o angeli, come dico in Poeti di mandorla amara. Così, attraverso i miei scritti voglio arrivare all’affermazione di questo concetto di dignità dell’essere umano. Dignità perché si è. Punto. Per molti, in questa nostra società, l’affermazione della propria dignità, passa purtroppo attraverso strade di disagio e di dolore dimenticate e nascoste, come nascoste ancora sono molte violenze sulle donne, sui bambini, su esseri umani considerati “diversi e sbagliati”. Credo che la scrittura sia un ottimo mezzo per alzare molti sipari e portare davanti agli occhi di tutti, storie che reclamano la loro dignità. E credo ancora che, per incidere, bisogna usare parole che abbiano un peso, che mirino direttamente al cuore e alla mente di tutti noi, che siano capaci di impressionarci come lastre fotografiche, e non solo di scivolarci addosso. Ecco perché, in tutti i miei romanzi, c’è tanta poesia che considero parola diretta, magari addolorata, magari felice, ma subito fruibile, disponibile, creatrice di impressioni e sentimenti immediati capaci di entrare quasi nel sangue e circolare con esso per rinnovare in se stessi e verso gli altri, la meraviglia della vita e ancora una volta la “compassione”.
Ci parli del titolo che ha scelto per il suo romanzo, da dove arriva?
Poeti di mandorla amara è il verso di una poesia del grande Garcia Lorca, uno dei miei poeti preferiti. Poeti di mandorla amara sono i bambini che muoiono nella fame e nella guerra, giovani mandati in guerre assurde, giovani senza lavoro, giovani ai quali noi adulti non siamo riusciti a dare un futuro, persone che muoiono per il lavoro, donne ammazzate e violentate, esseri umani lasciati al margine o messi a tacere perché considerati “sbagliati” o “diversi”. Sono quelli che trovano il coraggio per gridare contro le mafie e l’ingiustizia, quelli che usano la cultura per abbattere le barriere, quelli che usano la loro vita per l’affermazione dei diritti umani. Sono le persone semplici che si mettono in gioco per offrire ancora sogni di speranza per un mondo migliore. Il mandorlo, si sa, è il primo albero a fiorire dopo l’inverno, è quindi simbolo della vita che rinasce e afferma la sua forza. Una forza che passa spesso attraverso il dolore e il pianto, il buio e l’isolamento, ma che proprio da tutto questo trae il suo vigore per creare ancora una volta scenari di luce e di vita.
Quali sono i suoi progetti per il futuro? Altri lavori in cantiere?
Come scrivo in Poeti di mandorla amara, la scrittura è un filo che tiene attaccati alla vita. Ed io certamente continuerò a scrivere, perché “sono attaccata a questa vita, come la pulce al cane”. Con la scrittura le vite si avvicinano, e non ci sono più, alla fine, protagonisti e comparse, ma tante anime, belle nelle loro diversità, che si uniscono, che si “accorano” come in una grande orchestra. E tutto questo non può che essere una meravigliosa esperienza. La scrittura è un vizio. Un bellissimo vizio che porta solo bene… perché smettere?
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