ADA di Elisabetta Setnikar
Leggere la storia narrata da Elisabetta ci mette voglia, a noi nostalgici senza rimpianti della nostra vita tutta intera, di seguirla con la delicatezza e la leggerezza che le sono proprie e andare anche noi alla ricerca della nostra anima tra le nebbie dei giorni dimenticati. Rientrare anche noi nelle cucine delle nostre nonne o nelle cantine dei nostri nonni, a ritrovare le radici di noi stessi.
Speriamo come lei di aprire un cassetto e di liberare odori, sapori, ma soprattutto emozioni di quel tempo andato. Perché quelle emozioni anche se perdute nella nitidezza di un’immagine o di un suono, hanno in realtà plasmato la nostra natura più profonda.
L’infanzia di Elisabetta è la mia infanzia (e di chissà quanti altri fortunati), ora alle soglie dei cinquant’anni. Noi che abbiamo di fatto attraversato due epoche così vicine eppure distanti.
Quello di Elisabetta è lo stesso mio tempo, gli stessi ritmi con poche varianti: lei che scendeva a trovare i suoi cari nella grande città (Bologna), io che salivo in un minuscolo paese della piccola provincia (Predappio Alta); lei che ancora oggi vibra all’odore del borotalco io a quello della kaloderma. Ma i grembiuli delle donne (nonne o mamme anziane) erano gli stessi. Una uniforme insostituibile: umida del calore delle cucine d’inverno. Cucine in cui risuonavano gli stessi rintocchi dei pendoli; e alle pareti erano appesi gli stessi quadretti o ricordi. Tutti abbiamo camminate nelle stesse stanze buie rese ancora più misteriose e affascinanti dal freddo secco e pulito della mancanza di riscaldamento.
“Frammenti di sensazioni che si assorbono inconsciamente per poi ritrovarli in se stessi in un momento inaspettato della vita senza ricordarsi da dove siano arrivati, come, perché, quando”.
E gli oggetti magici e misteriosi, anche quelli che allora ci apparivano i più inquietanti (il lampadario), oggi ornano i nostri nuovi “nidi”, se siamo riusciti a costruirceli. E comunque restano, anche se riposti in una scatola, punti fermi a cui ancorarci nei momenti più difficili, nei nostri giorni più fragili.
Nulla è più ricettivo di un bimbo. Una bimba, se possibile, è ancora più sensibile e allora respirare quelle atmosfere, è stato come immagazzinare un “bagaglio di affetti”. Una valigia preziosa che ci accompagnerà in tutti i viaggi della vita. Per le vie diritte e luminose, ma anche e soprattutto quando ci ritroviamo a percorrere sentieri tortuosi e dissestati in mezzo all’oscurità e alla bufera. E’ l’amore che i nostri cari ci hanno trasmesso; l’amore semplice ma profondo e sincero che pervadeva ogni luogo vissuto insieme a loro, ogni loro gesto, ogni sguardo o parola.
L’augurio è che ognuno di noi, fortunati ad aver ricevuto tali doni, sia in grado di lasciare ai propri figli quel mare di emozioni che Elisabetta ha saputo così bene descrivere in questo libro semplice e forse proprio per questo così profondo, dove l’unico “plot” è l’emozione.
Quanti ricordi Elisabetta è riuscita ad estrarre dalle ruggini del mio ricordo: la tela (la panna) del latte che anch’io non sopportavo; il pane secco a quadretti da affogare nel caffelatte; le tagliatelle lasciate a “irruvidire” sul tagliere. E poi la “stufa economica”, splendido esempio di ingegnosità e di funzionalità, con i suoi scomparti uno per ogni necessità: quello verticale per disporre sempre di acqua calda, quello per mettere le scarpe bagnate o indumenti ad asciugare…
E poi Ada, che come le donne col grembiule della mia infanzia emerge come un’eroina. Donne di estrema grandezza nella loro normalità. Che spiccavano come lampi dalla loro semplice quotidianità quasi piatta, apparentemente noiosa. Le loro occupazioni usuali, i loro compiti: lavare, stirare, preparare la cena, nei nostri ricordi dissolvono come al rallentatore, diventando gesti nobili compiuti nella sala più ricca della loro reggia: la cucina, dove nessuno poteva comandare, neanche il loro uomo austero, così parco di soddisfazioni. Uomini buoni e rudi, induriti dal lavoro, dalla guerra, dalla vita. Uomini che le donne col grembiule servivano devotamente, in silenzio, senza un lamento, tenendo sempre dentro di loro le frustrazioni, i dispiaceri che sicuramente avranno avuto. Forse la loro grandezza deriva proprio da queste piccole sofferenze sopite, da questa loro abnegazione dignitosa nel rispettare ruoli e mentalità di un tempo spesso crudele.
Mi sono sempre chiesto, travolto come sono ogni giorno, dalla frenesia e dai ritmi insostenibili del nostro tempo attuale, quale fosse la magia che riuscivano ad emanare quelle vite così ordinarie e ripetitive.
Noi ci ritroviamo ogni giorno a correre pericolosamente su autostrade, a spostarci con lo sguardo fisso e triste chiusi dentro ad un metrò, e contemporaneamente, nello stesso momento, da qualche parte, forse ancora oggi, magari in un paesino sperduto, una qualche Ada ripete i suoi gesti monotoni e consueti, ma riempie di emozioni per sempre il cuore di un bimbo. Ecco il riscatto di quelle donne così composte. La loro ordinaria, mite semplicità, che si trasforma in energia pura per le persone che amano.
Novembre 10, 2009
Il senso del mio scritto è stato pienamente colto.
Sono commossa e lusingata da queste magnifiche parole.
Grazie di cuore
Elisabetta