Il libro di Dolce | Maria Grazia Corradi
Siamo agli albori degli anni novanta, le utopie dei decenni precedenti sono state accantonate lasciando via libera all’edonismo imperante che coinvolge in specie i giovani adulti, i cosiddetti yuppies, rampanti uomini d’affari che si distinguono – ovvero si omologano, generando la massa – grazie alle loro auto veloci, l’abbigliamento griffato e l’irrinunciabile orologio sopra il polsino che – diciamoci la verità, forti del nostro essere postumi – stava bene soltanto all’Avvocato Gianni Agnelli.
Uno di questi uomini di successo immersi nella Milano “da bere” di quegli anni, tentacolare e corrotta, in cui è facile venire a contatto col malaffare in giacca e cravatta, è Martino, il protagonista de Il libro di Dolce, l’ultimo romanzo di Maria Grazia “Marion” Corradi pubblicato per i tipi di Erga edizioni.
Martino è un giornalista, appena promosso come capo della sezione esteri per la testata per la quale scrive. Grandi soddisfazioni dal punto di vista professionale, un bel po’ meno per quel che riguarda la vita privata e sentimentale: Martino è un uomo insoddisfatto, svogliato, a tratti immaturo, si approssima agli avvenimenti che gli si stagliano dinanzi quasi con inerzia, avvolto da una autentica “nebbia dell’anima”. Sta affrontando, annoiato, la separazione dalla moglie, Margaret, e proprio nel corso del trasloco dalla vecchia casa coniugale – dei sogni evaporati –, l’uomo si imbatte in un ingombrante imballo che cambierà il corso dei suoi giorni.
Al suo interno due oggetti dimenticati: il primo è un diario giovanile appartenuto al Martino che fu, un “Martino che non c’era più da tanto tempo”, zeppo di tutti quegli ideali sessantottini, le lotte studentesche contro i dettami dei padri, inevitabilmente traditi con la maturità – che d’altra parte è un bene, ché come diceva Cesare Pavese “c’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti” – e del ricordo di un incontro avvenuto in quegli anni nella biblioteca universitaria di Genova; il secondo è un enigmatico volume dal titolo Storia dell’Abbazia di Monte Peraldo; scritti che “lo ricongiungevano con qualcosa e lo portavano a ripensarsi”, al se stesso immerso in un passato segnato da altre passioni, da altri protagonisti.
“Aveva dimenticato quel libro. Anzi, no. Lo aveva rimosso, lo aveva seppellito sotto quella vita che da ragazzo, anche lui, aveva definito ‘borghese’. Lo aveva rimosso in modo così radicale da non averlo mai letto. Lo aprì per sfogliarlo e dal volume caddero altre pagine. Fogli strappati da un quaderno, e questi se li ricordava, perché li aveva scritti lui. Eppure provenivano dallo stesso passato, dalla stessa distanza abissale. Anche il suo diario raccontava di un lui che aveva rimosso, nascosto.”
Da questo momento il romanzo di Maria Grazia Corradi sale sull’ottovolante, andando su e giù nel tempo: nel Novecento, tra il 1967 e il 1991, l’età azzurra e quella matura del protagonista, e nel Trecento, negli anni 1316 e 1317, tra ricordi, scoperte e verità riposte in un cassetto, per dimenticare; oppure per far sì che un giorno riemergessero.
“Era esistito dunque nella sua vita un tempo felice e incorrotto?”
Come è facile intuire, la parte medievale del volume si svolge nella Abbazia ligure di Monte Peraldo, una abbazia costruita attorno all’anno mille che negli anni narrati contava circa venti ospiti tra abate, priore, novizi e conversi. Pietro è uno dei conversi, accusato, assieme a una giovane di nome Griselda, di una duplice colpa: furto e lussuria. Siamo negli anni della cosiddetta Cattività avignonese – dopo l’instabilità successiva ai fatti di Anagni, dal 1309 la sede papale è stata trasferita al Palazzo dei Papi di Avignone –, ma anche della composizione della Comedia di Dante Alighieri. Questa rappresenta una parte oltremodo intrigante dell’opera, segnata dall’ipotesi sulla genesi avanzata dalla Corradi; inoltre, emerge tutto il certosino lavoro di ricerca svolto dall’autrice per riportare con credibilità usi, costumi, lessico e pensieri dell’epoca, un terreno limaccioso in cui anche per i grandi scrittori l’errore è sempre dietro l’angolo.
Il libro di Dolce potrebbe sembrare una storia dall’architettura arzigogolata, ma in vero viene addolcita dalla capacità narrativa di Maria Grazia “Marion” Corradi – già autrice di altre opere come Le radici del mirto e La mia storia con Sacha – a cui vanno i meriti di essere riuscita egregiamente nel compito di gestire e sovrapporre diverse epoche e diversi linguaggi – colloquiale, stilnovista – in un unico scritto, senza parteggiare per una sezione o l’altra della storia, ma mantenendo equilibrato il livello di ognuna delle fasi in cui si divide il romanzo.