Intervista a Roberto Venturini – L’anno che a Roma fu due volte Natale
Natale. Da bambini era la festa più attesa. Da adulti si trasforma quasi un rito distratto, consumistico, dovuto. Quando, poi, si è soli la dilatazione a vivere quel tempo, diventa spazio irreale. Dove si può pensare. Immaginare. Create mondi paralleli che dal reale diventano salvifici, quasi protettivi. Nati per credere che qualcosa possa essere recuperato, perdonato rivissuto.
In questa amara e melanconica zona di non vita o, forse, di vita sperata si muove il romanzo di Roberto Venturini “L’anno che a Roma fu due volte Natale” edito 2021 da SEM Editore e tra i candidati al premio Strega 2021.
Abbiamo avuto l’occasione di poterlo incontrare durante l’ultima edizione del festival di Pordenone Legge, poco prima del suo incontro con i lettori, tra parole, riflessioni e non solo su un testo dolce e amaro. Che della solitudine e il rimpianto, tra un lutto e una perdita non accettata si fa valvola di analisi cruda del reale. Di quelle solitudini che nascono nelle periferie pasoliniane, che nel tempo e con il tempo si sono rivelate ritratti evidenti di quel disagio degli ultimi. Di quelle realtà di emarginazione, di sfratto dell’umano che si fa solo emozione.
Roberto, intanto grazie della disponibilità
Iniziamo questa nostra chiacchierata partendo dal protagonista “logistico della storia” Torvaianica. Una periferia allargato che si fa rifugio del disagio e degli ultimi in una ricerca quasi di dove i personaggi delle borgate pasoliniane si siano andati a rifugiare. Ma è davvero così o c’è dell’altro scoprire in questa periferia “allagata” di Roma?
Per me, che conosco quel territorio molto bene, mio nonno ci acquistò negli anni 60, è il ricordo o comunque un luogo che racchiude un momento della mia vita. Un “posto” dove fare le feste nel periodo dell’università o con gli amici per studiare. Li ho vissuto quella “parte altra” di quelle piccole cittadine di mare che d’inverno un po’ si seccano. Si spengono quasi. Ma è proprio lì che ho conosciuto quell’umanità “altra” che di raddensa e di palesa. Di fatto Torvaianica è stata l’arena ideale dove far muovere i miei personaggi per una ragione, che è poi quella principe e che muove il mio romanzo: dare corpo e analisi all’occasione persa.
Conoscendo bene il territorio a tutti gli effetti è diventata immediatamente un “personaggio” a tutti gli effetti. Come i componenti del nucleo familiare che vado raccontando. Paralleli nella sorte. Entrambi hanno perso una grande occasione. Per qualcosa come 20 anni Torvaianica era diventata una costala della dolce vita romana. Una sorta di Via Veneto pontina grazie a un personaggio come Ugo Tognazzi che con il suo torneo di tenni che dava come premio il famoso “ “scolapasta d’oro (placcato)” aveva dato nuovo lustro a un litorale che alla fine degli anni 50 era una riserva naturale e un possedimento dei Torlonia per poi esser vissuta da pescatori che poi con gli anni 60 e poi con i 70 punto di riferimento non solo della vita culturale romana, ma dell’intera cultura romana di quel periodo.
Una volta poi morto Ugo Tognazzi piano piano si è andata spegnendo inevitabilmente. Ripiegata su se stessa, come la cera di una candela. Ritornando il quell’anonimato sconosciuto come il resto del litorale romano.
Un litorale “abbandonato” in modo distratto, ma cosciente. In cui trovano collocazione e i tuoi “ultimi”, che negli anni 80 sono “sul pezzo” e alla ribalta e che poi perdono quell’evidenza dell’occhio di bue nel palcoscenico della vita. E penso ad Alfreda, la protagonista della storia…
Assolutamente concordo con te. Infatti, anche complice la crisi economica, subito dopo gli anni 80 il “famoso ceto medio” che io racconto e che ha seguito gli eventi dello “scolapasta d’oro” illudendosi di un benessere raggiunto con la possibilità della seconda casa, si trova infranta e vulnerabile palesando i loro piccoli drammi, la loro umanità da ultimi. Una grande umanità…
In questi ultimi sembra di intravedere (e alle volte di veder proprio) un rimpianto per qualcosa che “poteva essere fatto”. Rimandato a giorno dopo per poi diventare “passato”. Anche Alfreda con la sua umanità di donna malata e dalla tristezza disarmante appare così…
Alfreda è la mia protagonista principale. In lei è evidente il segno della mancata elaborazione del lutto che declina nella accumulazione seriale.
Questo anche a livello simbolico ed è un segnale molto forte: cercare di conservare oggetti che appartengo al passato, e che in quel passato hanno avuto un significato. Il continuare a conservarli è un paradosso per non lasciare quei ricordi, quei momenti. Quasi a trattenere quelle emozioni e quei pensieri che in passato avevano significato, un ruolo, ed ora non l’hanno più. Per Alfreda, poi, questa accumulazione è diventata “prigione”. Il villino, dove vive con il figlio, è una sorta di discarica, che però, la voce narrante; chiama in modo più romantico “gabbia del passato” fatta appunto die quegli oggetti del suo passato appunto dove tutto era legato al suo nucleo familiare.
Io racconto la storia di questo nucleo familiare. Che è stata una storia d’amore e di affetto a più binari: Madre e Figlio (Alfreda e Marco) tra Moglie e Marito (Alfreda Mario) e anche tra Alfreda e Sandra Mondaini (amiche di un tempo) che Alfreda crede, a un certo punto, di rivedere triste per la lontananza dal marito Raimondo nella sepoltura. Li Alfreda circoscrive e identifica il proprio lutto e la sua perdita
La scelta del rapporto e parallelo tra Sandra e Raimondo con Alfreda e Mario sta nell’essere entrambi coppia quindi…
Ma non solo. Perché qui entra a “bomba” la componente del grottesco. Il raccontare l’episodio ironico, ma che è a tutti gli effetti sublimazione di una disperazione che lascia l’amaro in bocca. Un po’ come le commedie degli anni 70 . Nel caso della mia protagonista entra in gioco “l’empatia” con questa coppia che lei in vita aveva davvero avuto modo di incrociare nelle viuzze Torvagnanica (Vianello acquistò un lotto per trascorrevi dei periodi di relax con sua moglie Sandra). L’averli conosciuti e il fatto della loro “separazione” dopo la morte è stata una sorta di simbolo di unione coniugale nazional popolare: per Alfreda una vera scossa, visto che ha vissuto lo stesso dolore perdendo suo marito in mare. Un lutto nel lutto poi, perché il corpo di suo marito non è mai stato recuperato e qua (come dicevo prima) c’è la componente del grottesco. Ovvero quello che apparirebbe cosa ironica (apparizioni ad Alfreda di Sandra Mondaini) sono invece il picco più drammatico. Perché ad apparire non è la Mondaini degli sketch con il marito, ma è quella che abbiamo visto tutti durante i funerali: la donna disperata per la perdita dell’oggetto amato. Da qui l’empatia Sandra/Alfreda
Un’empatia molto intensa che trasla anche nelle ambientazioni, oltre alla già citata Torvaianica, forte è la presenza del mare che appare all’inizio e poi costeggia l’intero scorrere del racconto fino alla fine…Tutto inizia nel mare e tutto finisce nel mare. Io il mio romanzo l’ho definito una favola “pescatoria”. Il mare nel nostro immaginario è sempre, il mare d’inverno poi è un topos imperativo. Ci costringe, anche in maniera prepotente, a una riflessione, ti impone la solitudine del suo silenzio. Di ridefinire te stesso in alcuni particolari momenti della tua esistenza
IL tema della solitudine che parte dal mare e poi ritorna anche nella malattia: un’idea per evidenziale il personaggio del suo essere “isolato” o ci sono altre declinazioni narrative che l’hanno posta in rilevo.
Nel mio romanzo la solitudine è molto legata a questa tematica dell’2occasione persa”. Credo non ci sia cosa peggiore che ricordarsi dei tempi passati, quando si è nella miseria. Un rimpianto che acutizza ancora di più il senso di solitudine.
Nel tuo finale “aperto” la solitudine diventa una presa d’atto. Penso a Marco, figlio di Alfreda, che fa sua in un atto speculare la solitudine della madre. Anche nel “rapporto fisico” con la pseudo compagna Francesca dove si definisce incapace di un “amore normale”.
I miei protagonisti sono dei nostalgici, diversi dai retro maniaci. Declinano in maniera diversa. Alfreda è avviluppata nel passato e questo non le consente di vivere. Marco, invece, lo possiamo declinare in quella accezione positiva junghiana: dalla energia del ricordo trae quella possibilità di ridefinire se stesso. Se non fosse che lui ha un grosso impedimento, quel ribaltamento del ruolo genitoriale per cui “Marco diventa il genitore di Alfreda”. Questo gli impedisce la progettualità sintetizzato in quella frase a conclusione del capitolo:
“torno a casa” nel posto dove sa che deve stare.
Una sorta di sacrificio imposto.
Un sacrificio inverso in qualche modo che poteva far nascere anche un altro titolo invece, questo..
E’ legato alla neve. Per entrare a gamba tesa sull’aspetto surreale e grottesco. Noi a Roma non siamo abituati a vedere la neve e quando succede e rivediamo le persone per strada ad ammirare ed assaporare un momento così magico e così raro, tutto sembra scomparire anche le acredini e gli odi de giorno prima. Come se davvero fosse festa…come se fosse appunto Natale. Il mio racconto è ambientato in quell’anno in cui a Roma nevicò due volte a gennaio e a febbraio
Un connubio perciò per ritrovare buoni sentimenti, tipico poi anche della pubblicità del periodo natalizio e di quel frangente storico (gli anni 80 appunto). A Proposito di questo: il continuo richiamare alla pubblicità di quegli anni, invece..
La citazione è legata ai miei personaggi, appunto nostalgici. Un recupero di quell’“Immaginario”. Quel linguaggio televisivo che si è fatto paradigma di un immaginario emotivo. La canzone della Coca Cola, ad esempio, è la colonna sonora 2.0 metafore di una similitudine unica nel suo genere. Citare le pubblicità è come usare una sorte di lingua comune, un esperanto pluri – generazionale. Cosa oggi non possibile perle piattaforme on line. Insomma un riferimento alla sub -cultura poi
E sulla struttura a capitoli e sezioni, sembrato “quadri teatrali”..
Questo romanzo voleva essere un umilissimo omaggio a quella che è una della mie più grandi passioni: la commedia all’italiana di Scola, Ferreri e dello stesso Ugo Tognazzi che hanno raccontato con l’espediente ironico e la sublimazione della disperazione. Su quella linea ho immaginato il mio racconto come quei film, trasportandola sulla linea della letteratura. Se poi penso a “Un fischio al naso” dove Tognazzi è registra ed attore e che è tratto da un racconto breve di Buzzati. Dire che è nel DNA dei narratori del nostro paese la componente del grottesco, diventa innegabile.
Nel ringraziarti, chiudiamo con la domanda di rito. RecensioniLibri nasce da lettori e quindi: Roberto Venturini che lettore è e che genere di “letture predilige”? Consigli da lasciare?
IO sono un lettore onnivoro. Ora, per motivi lavorativi, leggo gli esordi italiani. Vedere il percorso che stanno facendo gli autori italiani che hanno esordito qualche anno fa. Mi sento di consigliare un romanzo che mi sta prendendo tantissimo “Randagi” di Marco Amerighi Bollati Boringhieri (2021) autore relativamente giovane…che consiglio a tutti.
Spazio promozionale. Vuoi una presentazione professionale? Clicca qui