Black out | Roberto Delogu
Black out di Roberto Delogu (edito Nutrimenti) è un romanzo forte e sinistro, che fa riflettere sulla condizione delle carceri italiane, sulla figura del detenuto e su quello che si sviluppa nella sua psiche nel tempo sospeso della prigionia.
“Emiliano Bardanzellu, nato a Cagliari il 10 aprile 1974, residente in via dei Villini numero 10”.
“Titolo di studio?”.
“Laurea in Scienze politiche”.
“Professione?”.
“Cameriere”.
“Stato civile?”.
“Coniugato”.
“Beh, no, signor Bardanzellu. Non più!”.
“Ha ragione, mi scusi. Vedovo”.
Il nuovo romanzo di Roberto Delogu dal titolo Black out, edito da Nutrimenti, si apre con la voce di un uomo che ha quasi finito di pagare il suo conto con la giustizia italiana: dodici anni di galera per l’omicidio della moglie, uno dei reati peggiori e per l’opinione pubblica e per l’opinione carceraria. Emiliano Bardanzellu ha ucciso Margherita, sua moglie, una giovane donna discreta e dall’indole docile.
Come e perché la ha uccisa?
Non si sa, ché il Bardanzellu non ricorda nulla di quel momento fatale, ha un vuoto totale dall’attimo in cui sua moglie ha schiacciato una bottiglietta di plastica a quello in cui ha composto il 112 per avvertire chi di dovere della morte della consorte.
Roberto Delogu racconta tutte le fasi dell’esperienza carceraria dell’autore del delitto, principiando dal processo, in cui l’uomo non fa nulla per difendersi, ricordando l’eccezionale impassibilità di Meursault nello Straniero di Camus (“Non so se ci si possa veramente pentire di una cosa che non si ricorda di avere fatto”), e procedendo con la quotidianità che si crea anche tra le mura di un penitenziario, con il calcolo, costantemente aggiornato, del fine pena e coi giorni di permesso che nell’ultima fase della prigionia sono concessi al detenuto.
Questi righi, nello specifico, stringono lo stomaco, con Bardanzellu che, in riva al mare, si sente soffocare da tutta quella libertà, colto da un autentico “terrore della libertà” o da un ignoto presagio, e chiede al padre di riportarlo a casa, in attesa delle ore che lo separano dal ritorno in prigione.
Black out è anche una piccola guida antropologica dei sardi e dell’isola, nei suoi anfratti più impenetrabili, nelle sue subregioni più sconosciute. C’è Giacomo, testimone bugiardo, che, una volta uscito di galera, sogna di andare a pesca di aragoste con il barchino che il padre gli ha lasciato ormeggiato nel porticciolo di Buggerru. C’è Celestino, feroce killer, che nel Sarrabus, sulle rive del Flumendosa, ha ammazzato una manciata di pastori per appropriarsi dei suoi pascoli, il tutto sotto gli ordini della spietata madre. Non soltanto sardi, ché nelle prigioni dell’isola, più vicine a delle vecchie colonie penali che a dei moderni istituti di pena, di galeotti ce ne sono di ogni specie: si incontrano, quindi, anche il calabrese che dopo aver militato senza entusiasmo tra i testimoni di Geova e i buddisti si è convertito all’Islam, il magrebino che si dichiara discendente diretto nientemeno che di Annibale, lo spacciatore chiamato da tutti l’Avvocato, per via della sua scrupolosa attenzione a rasentare il codice o perlomeno a non incappare nei reati più gravi del mestiere.
Nella sostanza, però, Black out è una storia tetra, ma che finge di non esserlo, raccontata in prima persona dall’assassino – inevitabilmente in prima persona, come ci insegna il marito della Mite di Dostoevskij – che prova a ragionare e sragionare su quel che è accaduto in quel momento perso nei flutti della memoria e che ha mutato il verso della sua intera esistenza.
È nelle ultime pagine che il romanzo, da quel che appare per gran parte del volume un diario delle ultime prigioni, cambia direzione entrando prima in un turbinio di riflessioni dostoevskiane sul rimorso intriso di nostalgia (“Nel mio cuore Margherita non è morta”), sul valore del pentimento, sul senso di colpa e sull’impotenza che annichilisce chi non può dimostrare in alcun modo la propria innocenza, per culminare, infine, in un inquietante colpo di scena finale che sbarazzerà il tavolo da tutte le carte scoperte fino a quel punto.
Black out è un romanzo forte e sinistro, che fa riflettere sulla condizione delle carceri italiane, sulla figura del detenuto e su quello che si sviluppa nella sua psiche – e in quella del mondo che scorre silente dietro le sbarre d’acciaio – nel tempo sospeso della prigionia.