Imre Oravecz | Settembre 1972
In principio ero solo io, mi bastavo. Poi ho visto te e l’orizzonte è cambiato, diventando lentamente un noi. Ci siamo amati, e la passione ci ha fatto diventare un insieme. L’amore muta. La colpa, l’inganno il tradimento, equamente divisi, hanno lasciato tra noi spazio al sospetto, alla gelosia al disprezzo.
Siamo diventati uno e altra, lui e lei. Lontani distinti disuniti. Ombra di un passato che a dubbio sembra essere esistito. Da Io e te, a Noi ed insieme fino a diventare estranei, ignoti nemici.
Ormai vivo e vive solo il ricordo del desiderio che si è trasformato in agognato e lento distacco
“E quando rinuncerò anche a te e non ci sarà più né passato, né presente, né piacere, né sofferenze e non ci sarai nemmeno tu, perché non vorrò che tu ci sia, ci sarà solo un futuro, bello e impietoso.”
Sarà stato amore, il nostro o solo poesia. Sintesi di quesiti eventi e momenti di una o più vite che Imre Oravecz, poeta tra i più noti in terra ungherese onestamente si pone e descrive nel suo Settembre 1972 edito da Anfora Editore (2019), che uscito in terra magiara nel 1988 e le cui copie andarono esaurite in tempi brevissimi, divenendo un vero e proprio caso letterario.
Una opera tra le più inaspettate e immediate di Oravecz, testo sospeso che sorprende tra poesia e romanzo, teatro e vita vera.
Nel leggerlo riga dopo riga o aprendone alla rinfusa una pagina concede al lettore di assaporare la fine e speculare esperienza del sentimento più complesso sfaccettato immediato che avvolga l’essere umano nel suo animo e nella sua essenza: l’amore.
Sentimento, quest’ultimo, spesso (o sempre) affiancato e limitato al lirismo poetico, ma che il poeta ungherese dilata e intreccia a molti stili narrativi (il romanzo primo fra tutti) mantenendo una liquidità di narrazione che non permette di prendere fiato. Che incalza incondizionatamente ed inevitabilmente come l’amore vivo e vissuto.
Raccontare davvero d’amore non è certo facile.
Facile è apparirne scontati nel farlo: banali, ridondanti quasi dolciastri. L’amore, poi, non è certo un sentimento “statico”. Si trasforma, modulandosi in sfumature che vanno dall’affetto, all’amore, alla passione, senza barriere o limiti: impetuoso, inaspettato, instabile e labile.
Capace di portare con sé “un sentire” ai limiti del possesso e della gelosia che facilmente si può trasformare in odio fino al distacco, completo e definitivo.
Imre Oravecs ci racconta tutto questo: con tatto e competenza, con delicatezza leggera, mai impositiva di un dogma. Fluido nel suo mettere parola dopo parola, verso dopo verso, trasformando la poesia in prosa e la prosa in poesia in una unica soluzione di continuità che non identifica perimetri narrativi e di stesura tematica, ma mescola caratteri senza confini. Inevitabilmente il narrato diviene condivisione semplice, universale immediata. Con una struttura a quadri teatrali forse scomposti e di rado consecutivi, il poeta magiaro riassumere intensità di sentimenti e di sentire, passioni e tenerezze, tristezze e prospettive possibili di un uomo e una donna, che divengono chiavi universali di qualsiasi amore passato contemporaneo e prossimo.
In una primavera che timida conosce e coltiva acerbi affetti, ancora ignoti, “tutto ancora da scoprire” e cresce nel caldo della passione erotica non volgare che sa d’estate e poi lentamente (se non condivisa per accrescerla) si tace piano piano in un autunno, che preannuncia l’inverno della separazione, del “non più amore” e fino al distacco.
La necessità di essere con l’altro, di completarsi con l’altro, di essere e creare un tutt’uno, attraverso i figli, si fa meno. L’insolvenza della condivisione, della pienezza del vivere una non vita si dissolve trasformandosi in altro da noi: proattiva metafora che solo l’amore sa dare trasformandoci nel cambiamento che non ti aspetti.
Il tempo e lo spazio di una vita diviene altro e anche dopo
“…quindici anni, tanto tempo è passato da quando vivo senza di te … come se mi avesse punto una vespa, scattai in piedi, e vergognandomi di quanto sarei ridicolo se ancora soffrissi per te, corsi fuori. Nuovo diverso, mai vissuto.
Tali e tanti sono i moti dell’animo che troviamo in Settembre 1972 che soffocano impauriscono, poiché reali, condivisi innegabilmente veri. Non c’è dubbio poi che creino “dipendenza”, voglia di ritrovarli anche se “ paura” di riaprire la ferita profonda lasciata che ì stenta a cicatrizzare è tanta.
Tutto ciò viene rimarcato dallo stile ad “appunti” del romanzo poetico che è un po’ diario quasi personale, disordinato e disorganico, che lascia senza fiato chi lo vive , chi lo scrive, chi lo recita.
Ma è nella volontà di Imre Oravecs tutto ciò e che lei definisce torrenzialità tipica della poesia. Essa non stigmatizza in un racconto, ma si limita solo a raccontare: tutto, subito, insieme, come viene fosse anche in una sola frase. Pensiero che nasce al cuore per trasformarsi in sentimento e passione.
Passione che non permette di avere nulla “in mezzo” per essere raccontata. Nemmeno la punteggiatura.
Punti e virgole diventano inutili: freni e lacciuoli imposti al vivere il piacere, come accade in un romanzo.
La loro assenza dà maggior forza a questa torrenzialità che narra il cuore, a briglia sciolta, rivelandone verità e lati oscuri.
L’amore così narrato non può che identificarsi in poesia di racconto, che è amore nell’altro dell’altro e con l’altro. Non si sfugge. Se ne viene inghiottiti perché:
“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi Leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. … la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita..” cit Dead Poets Society 1989