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Mario Bortolotto: imprescindibile e imperdonabile.

mario bortolottoLa notizia è di quelle che suscitano per il solito due diverse reazioni: l’indifferenza e un ridicolo stupore.

La morte di Mario Bortolotto, il 27 Settembre scorso, è passata inosservata sui mezzi di comunicazione ed è inutile riferirla a quanti di musica classica non hanno mai ascoltato una nota, se non per sbaglio.

Tutti gli altri, che lo ammirarono, hanno annaspato, come se a novant’anni non si potesse morire. A me personalmente la notizia ha suscitato soltanto un certo senso del dovere. Nonostante la totale inattualità – per questo sito e in sé e per sé – dell’evento, esentarmi dal parlarne avrebbe costituito una grave colpa.

Ho sempre guardato a Bortolotto come a uno di quei misteri della letteratura italiana.
Moltissimi anni fa uno scribacchino da gazzetta pomeridiana, che se la dà da intenditore delle sette note e di tutto lo scibile umano, si scelse come nemico Paolo Isotta, altro musicologo, per via dei suoi articoli incomprensibili.
Per un momento anch’io fui tentato di scegliermi come nemico Bortolotto, perché un Isotta, al confronto, scrive temi da elementari.

Poi ci pensai su e desistetti. Non perché non avessi ragione nel ravvisare nei libri e negli articoli di Bortolotto una protervia e un’ostentazione di cultura che c’è ed è fastidiosa, ma perché la mia strada, nonostante mi fossi allenato sulle pagine d’un Buscaroli, era ancora lunga.
Arrivò finalmente il giorno in cui, a differenza del succitato gazzettiere, riuscii a rompere diffidenza e insofferenza verso la prosa bortolottiana e si schiuse un grande amore.

Se c’è scrittore di musica cui da quel momento sempre ho prestato occhi e orecchi, è proprio lui, che se ne sta nel picciol novero di quei virgili scelti per non cadere nelle numerose trappole tese dal culturame italiano.

 

Mario Bortolotto

I suoi libri sono capolavori – anche nella malandrina e in fondo simpatica arroganza, che sfida il deserto – e stanno nella costellazione degli eventi letterari diciamo dell’ultimo mezzo secolo, italiano ed europeo. Non ho mai creduto alle categorie e pertanto mi rifiuto di allocare questo scrittore tra quelli musicali. Fu uno scrittore nel vero e nobile senso della parola che scelse come materia prima la musica. C’è qua e là sparso un contributo alla coppia Nietzsche-Wagner (prefazione agli Scritti su Wagner, Adelphi) e altro, sempre e rigorosamente, nemmanco a dirlo, per la casa editrice di Roberto Calasso. Per il resto è una catena di sontuose opere su temi con al centro la musica, ma trattata come può solo un pensatore universale.

Prendo a caso.
Dopo una battaglia (1992) fa qualcosa che, a mia conoscenza, mai prima era stata osata: ricostruire, come da sottotitolo, le Origini francesi del Novecento musicale. Accanto all’Austria, Bortolotto individua nella Francia del dopo Sedan la fondazione di ciò che sconvolgerà i pentagrammi del nuovo secolo. Nessun conoscitore di musica, nessun competente riesce ad allocare così tante notizie e riflessioni, attingendo alle più varie fonti. Come tutti gli altri, questo libro impone al lettore conoscenze musicali anche tecniche ed è la prima volta, o una delle rarissime, in cui, invertendo il sacrosanto asserto buscaroliano, un compositore potrebbe riconoscersi in quelle analisi.
Se si vuole invece capire finalmente colui il quale, giusta Bortolotto, «non sbaglia mai», si legga La serpe in seno. Sulla musica di Richard Strauss (2007).

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Di utilità inesauribile è il più tardo Est dell’Oriente (1999), dove la negletta musica russa, da Glinka e paraggi in avanti, viene risollevata a una dignità perduta o al massimo völkisch.

I grandi grandeggiano, ma sono i cosiddetti minori a primeggiare.

Ed è questo un tratto amabilissimo di Bortolotto, che i „mendicanti” di novità musicali come lo scrivente vorrebbero vedere anche per la letteratura, la filosofia, la poesia, finalmente adunati.

Se non suonasse orrendo, si potrebbe dire che non c’è compositore ignoto a questo scrittore.

Chi sa di musica, s’avvede subito che la conoscenza non è solo, o quasi mai, frutto dell’ascolto dal disco, bensì dalla prova al pianoforte. Tant’è che, gaudeamus, Bortolotto dedica pochissime pagine (qualcosa in Corrispondenze, ma son concessioni occasionali) agli interpreti. E questo agli occhi miei e di quanti seriamente si occupano di musica lo santifica.

Ma è una scelta elitaria, connessa con la conoscenza dei compositori evitati in riproduzione. Chi non possa suonarseli o possa solo suonarseli male, deve giocoforza affidarsi agli interpreti e operare una scelta, che diventa quasi un’arte. Tanto per offrire un ciuffo d’esempi: per me Beethoven e Bruckner ondeggiano, soprattutto il secondo, solo tra Furtwängler e Celibidache; Puccini – Manon Lescaut e Madama Butterfly – nelle uniche incisioni di Giuseppe Sinopoli, cui assieme a Karl Böhm affido Richard Strauss.

Snobismo, quello di Bortolotto? No, questa è la morale dei chandala d’ogni disciplina, d’ogni ipotesi di studioso. Forse è un po’ di sano autismo, perché la musica egli l’affronta – l’affrontava – «ohne Mittel», come un mistico medievale, alla Eckhart, pur cui il dio andava così penetrato.

Ancora una parola sui minori. Stupii quando nei sette volumi adelphiani non trovai citato nemmeno una volta un mio amorino: Vittorio Gnecchi, autore, tra l’altro, d’una deliziosissima Cassandra, uno di quei compositori che può guardare dall’alto in basso certi sopravvalutatissimi veristi e anche scoppiare a ridere in faccia a Verdi. Che lo conoscesse non c’è alcun dubbio, mi ci gioco qualsiasi pegno. Non ci sarà stata l’occasione, anche se conto di trovarlo almeno citato nel volume che uscirà nel 2018 ancora per Adelphi, che raccoglie l’estremo lascito e dal titolo ancora ignoto.

Chi volesse sapere di musica si pigli, almeno per cominciare, l’Introduzione al Lied romantico (opera d’esordio e sfrontatissima: niente introduzione, niente indice, un ruscello di duecento pagine senza interruzione) o Fogli multicolori (2013). Poi o soccomberà, oppure si procurerà tutti gli altri. Tranne uno, e qui sono dolori.

Le riflessioni di Bortolotto su Ravel mi hanno sempre lasciato l’amaro in bocca. Enzo Restagno a parte (Ravel e l’anima delle cose) e il bel romanzo di Echenoz (Ravel, Adelphi) mettono già a dimora il più; ma che mancasse una parola, almeno iniziale, di Bortolotto su quello che starebbe nella schiera dei primi dieci compositori di tutti i tempi, era intollerabile. Sperai fino all’ultimo in una sorpresa, che pure ci fu, sebbene amarissima. In un’intervista del 2010 Bortolotto annuncia: scrissi un libro su Ravel. Aveva vent’anni e lo bruciò. Son gesti che non si perdonano nemmeno ai morti.

Autore: Luca Bistolfi

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