Un pallido orizzonte di colline | Kazuo Ishiguro
Un’opera prima da riscoprire
“Un pallido orizzonte di colline”, edito in Italia per Einaudi Tascabili nel 2009, è l’opera prima dell’acclamatissimo scrittore giapponese naturalizzato britannico Kazuo Ishiguro.
Pubblicata nel 1982 in Inghilterra, l’opera è una delle poche dell’autore a non aver ricevuto riconoscimenti internazionali, che sarebbero arrivati dal 1989 in poi con il Booker Prize per il memorabile “Quel che resta del giorno”.
Un pallido orizzonte di colline e le verità celate tra le pagine
Protagonista del romanzo è una vedova giapponese trasferitasi in Inghilterra, dove si trova a fronteggiare il dolore causato dal suicidio della primogenita. Con quella che sembra casualità involontaria, Ishiguro ci riporta assieme a lei in un’estate di molto tempo prima, a Nagasaki; l’estate in cui conobbe Sachiko e sua figlia Mariko, due figure femminili immerse in un alone di mistero.
Narrando i fatti in prima persona Etsuko, la protagonista, tratteggia un quadro dalle fattezze astratte e – giustappunto – pallide, di una Nagasaki post-bomba atomica, nella quale le vecchie tradizioni giapponesi si iniziavano a fondere con malcelato contrasto al processo di democratizzazione del Paese, avviato dal governo statunitense a seguito della seconda guerra mondiale.
Gli avvenimenti storici sono in realtà relegati a funzione di sfondo sfocato delle vicende narrate, lasciando il primo piano a delle istantanee di vita di questi personaggi femminili costantemente incorniciati da sensazioni di inquietudine ed attesa, che si riversano con parsimonia ben studiata sul lettore.
Abbiamo infatti il sentore che dietro i comportamenti schivi e le parole ingannevoli dei personaggi si nasconda un risvolto macabro e minaccioso; con ogni pagina crediamo di avvicinarci alla verità, o quantomeno ad una spiegazione, ma in realtà ce ne stiamo allontanando sempre di più, ingannati da una narratrice che si confonde e ci confonde.
La spiegazione forse non esiste, forse non è mai esistita. Oppure non ha alcun valore cercarla. Etsuko stessa se ne convince:
“[…] come con le ferite del proprio corpo, anche con le cose più inquietanti è possibile creare un rapporto di dimestichezza”.
La forza del vuoto
“Un pallido orizzonte di colline” è un libro destabilizzante; fino all’ultima parola vi chiederete cosa stia succedendo, quale tema l’autore stia affrontando, cos’era sua intenzione comunicarci; e – ve lo assicuro – continuerete a chiedervelo anche letta quell’ultima parola.
Il passato qui rievocato non è marmoreo, bensì fumoso e malleabile, ma costantemente intriso di un desiderio morboso di futuro, l’unica cosa che a Nagasaki era rimasta: un immanente futuro in contrapposizione ad un passato raschiato via. C’è dunque questa tradizionale retorica del “pensare al futuro” per non crucciarsi del passato, ma ciò che la nostra protagonista sta facendo è paradossalmente lo speculare opposto: analizzare il passato per comprendere i drammi del presente.
Questo gioco di specchi è reso più interessante grazie alla decisione di Ishiguro di estromettere dalla narrazione riflessioni sulla più pregnante realtà storica del momento: la distruzione causata dalla bomba atomica.
E’ proprio il vuoto derivante da questa omissione, con tutto ciò che i personaggi non dicono, che rendono il libro così denso di innumerabili significati.
La storia si presenta palesemente come l’embrione dei successivi romanzi di Ishiguro, già provvista dello stile raffinato e morbido che contraddistingue le opere dello scrittore. Se il lessico rimane elementare, c’è una certa delicatezza nel trattare il linguaggio dei singoli personaggi, in particolare quello della piccola Mariko, lapidario e enigmatico.
La struttura psicologica delle voci femminili non è eccessivamente profonda, ma possiamo riscontrare nuovamente la forza del vuoto creata da Ishiguro, che ci suggerisce quanto traumi epocali come quelli vissuti dal Giappone nel periodo postbellico influissero sulla sanità mentale delle vittime.
I personaggi maschili sono pochissimi, ma strutturati energicamente: sono uomini schiavi e allo stesso tempo sfruttatori delle tradizioni giapponesi posti a rappresentare il “vecchio” e il “nuovo”, categorie che Ishiguro svuota completamente di significato di fronte all’immediatezza dei drammi esistenziali di Etsuko, nel passato e nel presente.
Credo che sia un romanzo da riscoprire, che nelle sue poche pagine – 175 per l’esattezza – abbia ancora molto da dire e da far conoscere. Con tutti i suoi pregi, non è forse una storia apprezzabile da tutti; lo stile di Ishiguro è ancora decisamente nipponico, meno universale di quello dei suoi romanzi più famosi, “Non lasciarmi” e “Quel che resta del giorno”, ma non per questo meno valido.
Ottobre 23, 2017
Se dovessi individuare un concetto portante del libro, una categoria con cui interpretarlo userei quella di cambiamento. In particolar modo nella relazione che questo cambiamento innesca nei personaggi attraverso le loro relazioni e nei confronti del loro paese. Sta forse nel mistero di questa relazione quel senso di angoscia che vien fuori con tutta questa evidenza.