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Spagna e Sud: il 1600 allontanò Napoli dall’Europa

Spagna e mezzogiornoSulle tracce della Questione del Sud in “Spagna e Mezzogiorno “

Gattopardi a Napoli, due secoli prima del principe di Salina. La rivolta antispagnola del 1647-48 cambiò tutto, per lasciare tutto com’era: vicereame spagnolo, soldataglia ispanica e odiose tasse e gabelle. Si parla, anche ma non solo, di Tommaso Aniello, “umile pescivendolo” di Napoli, nato da Francesco d’Amalfi e Antonia Gargani nel 1620, in Vico Rotto al Mercato. A quell’epoca, erano giunti al pettine i nodi del malgoverno e dei compromessi con la feudalità napoletana. Fu allora che nacque e cominciò ad allargarsi il solco tra il Meridione d’Italia e l’Europa. La considerazione deriva dal saggio “Spagna e Mezzogiorno (Secoli XVI e XVII). La rivolta di Masaniello del 1647-1648”, pubblicato a gennaio 2016 da Capone, Lecce, 192 pagine, 13 euro, a firma di Angelo Panarese, docente nelle superiori, già sindaco di Alberobello (Bari) dal 1994 al 2001 e autore di numerosi saggi storici, in particolare sulle vicende del Regno di Napoli.

La decadenza meridionale a partire dal 1600

Il 1600 segnò per il Meridione l’avvio della decadenza. Fino a tutto il 1500 la vita sociale dell’Italia meridionale aveva seguito il corso della storia europea, aprendosi, sia pure con qualche limite, ad uno sviluppo economico e ad una articolazione sociale meno bloccata. Col nuovo secolo, invece, ad una crisi generale del continente risposero dinamiche molto diverse nelle varie aree europee. Mentre in alcune – come nell’Italia del Nord – l’uscita dalla congiuntura dette avvio a un processo di ristrutturazione dall’economia feudale a quella pre-capitalistica, nell’Italia meridionale si entrò in una fase di lunga decadenza, di contrazione dei consumi, dei redditi e della popolazione. Come ha spiegato lo storico Rosario Villari: la struttura sociale si semplifica, il dominio aristocratico si consolida e le nuove ma ancora deboli forze borghesi indipendenti dalle strutture feudali vengono ridotte ai margini e sconfitte, non potendo certo aspirare a un rinnovamento complessivo della società. Il Mezzogiorno diventa un’entità marginale rispetto ad altri paesi dell’Occidente europeo.

Alla depressione sociale, fece da lievito anche la politica del vicereame spagnolo di sostegno alle imprese militari della madrepatria, con l’aumento vertiginoso del debito pubblico e della pressione fiscale, accentuati dal 1636 al 1647. Da qui le forti agitazioni sociali che culmineranno nei moti del 1647-48.

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E veniamo a Tommaso Aniello d’Amalfi (cognome, non luogo d’origine, quindi). I biografi non concordano sulla sua natura positiva o negativa. Se Capasso è innamorato della figura di Masaniello, Schipa lo descrive come un “malamente”, una gran faccia tosta, un poco di buono dedito indifferentemente ad attività lecite e illecite, ma con indubbie capacità di capopopolo.

Nel luglio del 1647, in una Napoli eccitata dalle notizie di tumulti contro le tasse scoppiati a Palermo e dai bandi del viceré di Sicilia che abolivano ogni gabella e concedevano indulti agli insorti, si vide Masaniello – probabilmente ispirato da ben identificati fomentatori – appostarsi nell’ampia spianata del Mercato, alla testa di trecento ragazzi chiassosi tra i dieci e i quattordici anni, armati di canne. Erano il fiammifero che avrebbe attizzato il fuoco.

Non vogliamo gabella, Viva il Re di Spagna, mora il malgoverno.

Poche parole di Tommaso e il casotto del dazio venne devastato. La marea dei popolani crebbe, si diresse verso il palazzo reale. La rivolta era scoppiata, ma non era rivolta contro il re di Spagna, semmai a favore, si ricorreva a lui perché facesse giustizia delle prepotenze dei suoi sottoposti, certamente cattivi interpreti dei buoni intendimenti del sovrano.

Nelle ore successive lo spaventato viceré, accertata la benevolenza della folla verso sua Maestà Cattolica, riconobbe a Masaniello il titolo di Capitano Generale del fedelissimo popolo di Napoli e gli regalò una collana d’oro. Gli fecero indossare anche un abito di lana d’argento. Erano le prime vertigini del potere, assieme a segni di squilibrio psicofisico e strani comportamenti, accentuati dai suoi avversari. Chi erano? Tanti, a quel punto.

Venne ucciso nel convento del Carmine. La testa mozzata restò in possesso di uno dei congiurati. Il corpo decollato venne trascinato nelle strade e abbandonato in una spiaggia tra l’immondizia. Il viceré non fu responsabile del misfatto, ma non se dolse, perché la morte di Masaniello metteva fine a un pericolo per tutto il Regno.

Il delirio del potere: dal contrabbando del pesce agli altari e dagli altari alla polvere, anzi alla spazzatura. Un’improvvisa scalata al potere consumata in appena dieci giorni. Una parabola breve, però la ricordiamo ancora.

Autore: FeL

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