“Noi due e gli altri” di Fionnuala Kearney
Il folgorante romanzo di esordio di Fionnuala Kearney, “Noi due e gli altri” è un caleidoscopio di personaggi e mezze verità, che commuove per la stupefacente sensibilità.
Il matrimonio, ma poi perché?
Dipingiamo il matrimonio in molteplici tonalità e sfumature, dalle più razionali alle più bizzarre: quanto è davvero necessario? E se, al contrario, fosse un artificio superfluo della nostra vita? Quanto costa organizzarlo? Ma, soprattutto, quanto è difficile tenerlo saldamente in piedi?
L’opera prima di Fionnuala Kearney racconta la storia di Adam e Beth e della loro figlia diciannovenne Meg.
Racconta i brandelli della loro vita di coppia andata in frantumi nel preciso e improvviso momento in cui compare sulla scena quel mostro pesante e agghiacciante, il cui nome può essere solo uno: tradimento.
Beth ha sempre pensato che la sua vita dovesse svolgersi a piccoli passi da seguire lentamente, senza fretta, ma in maniera ineccepibile: incontrare un uomo, sposarlo, trovare una casa, avere dei figli, scrivere canzoni.
Quando però scopre che suo marito Adam l’ha tradita per la seconda volta, il mondo le cade sulle spalle, spaccandogliele entrambe e causandole un dolore lancinante al petto: perdonata ed archiviata la prima scappatella di qualche anno prima, ora le tocca convivere con un’evidenza spietata. L’uomo con cui ha condiviso ventisei anni della sua vita, adesso ha perso la testa per una ragazzina, costantemente vestita in abiti succinti, che non si crea molti problemi a saltare addosso al primo uomo che incontra: a lei cosa importa se l’uomo in questione ha moglie e figli?
Disinibita nel sesso, come Beth non è mai stata.
Alla ricerca dell’equilibrio perduto
Dopo aver cacciato Adam, Beth e la figlia Meg si ritrovano a dover ricreare un nuovo equilibrio personale e di coppia, questa volta tra mamma e figlia, che, in maniera delicata cercano di districarsi tra i piccoli problemi quotidiani che entrambe devono affrontare.
A complicare le cose, un Adam cocciuto, che non ha alcuna intenzione di rinunciare alla propria famiglia: abbassa il capo cospargendoselo di cenere, implorando perdono e versando copiose lacrime da coccodrillo.
Un esordio coinvolgente
Al suo debutto Fionnuala Kearney affronta una tematica purtroppo decisamente ricorrente, nella sua terribile attualità: il tradimento nel matrimonio.
Soprattutto, la scrittrice analizza gli stravolgimenti che possono generarsi per quella che può sembrare una semplice scappatella: il senso di smarrimento in chi lo può subire, trova il contraltare nella stessa superficialità dell’atto. Purtroppo infatti, chi si concede una distrazione amorosa, di solito non si è mai fermato a considerarne le conseguenze. Le donne tradite sono due, in questo caso: la moglie e la figlia.
La figlia innamorata del proprio padre, di colpo vede distruggersi il castello di idee e convinzioni che aveva costruito attorno al suo papà, per trovarsi di fronte alla ben amara verità (difficile, assai difficile da accettare): il padre è un bugiardo, una persona orrenda, colpevole di un gesto imperdonabile, che mai potrà accettare e comprendere, anche se dovessero spiegarglielo mille e più volte.
Meg è una ragazza ferita e arrabbiata, ai limiti della disperazione, perché sente che mai più la sua famiglia tornerà quella di un tempo: incapace di portare indietro il tempo e intervenire, incapace di convincere le parti a prendere una decisione differente che non sia la rottura. Meg piange e si tormenta: chiude il telefono al padre e corre a consolare la madre, alla sua maniera.
Ma poi, i figli reagiscono sempre in questo modo?
E’ sempre così semplice capire e prendere le parti di qualcuno, in difesa della parte lesa? Ma, soprattutto, qual è la parte lesa?
Si soffre un po’ a leggere queste pagine, perché l’esperienza di una famiglia che si sgretola velocemente quando nessuno se lo aspetta, crea empatia e dolcezza verso i protagonisti della storia.
Sì, verso chi è stato tradito, ma anche nei confronti di chi ha ceduto, non perché lo si voglia giustificare e comprendere, ma perché il dolore che ne scaturisce può raggiungere proporzioni tali, da cucirti addosso un senso di inquietudine e di non ritorno, che ti lascia solo, inesorabilmente.