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“Trieste” di Daša Drndić

Trieste“È sufficiente un unico istante per aprire il segreto della vita, ma la chiave di tutti i segreti è soltanto la Storia, quell’eterno ripetersi e quello splendido nome che ha l’orrore”

Si apre così, con una citazione di Jean Luis Borges, il romanzo-documentario Trieste (Bompiani, 448 pp., 19.0€, 2015) della bravissima scrittrice croata Daša Drndić. Si racconta di Haya Tedeschi, ebrea convertita al cattolicesimo per non morire, alla ricerca di suo figlio. Di un figlio, il cui padre è uno spietato comandante delle SS,  nato a Gorizia nel 1944 e rapito nel 1946. 

E’ la storia che si confonde con la Storia; è la vita di Gorizia, Trieste; è la storia della prima guerra mondiale, della battaglia di Isonzo, del Fascismo, del processo di Norimberga; sono i giorni  di Haya, che per senso del dovere verso la grande storia e per rimarginare una ferita aperta al cuore, allo stomaco e alla testa, decide di raccontare, e lo fa attraverso la voce dell’autrice. Proprio all’inizio si legge:

“La sua è una storia piccola, una delle infinite storie sugli incontri, sulle tracce preservate dal contatto umano, lei lo sa, come sa che fino a quando tutte le storie del mondo non si comporranno in un gigantesco, cosmico patchwork a avvolgere la Terra perché possa addormentarsi, la Storia, quel fantasma della realtà, continuerà a lacerare, tagliare, frammentare, rubare brandelli di universo per ricucirli nel proprio manto sepolcrale. E’ persuasa che senza il suo racconto quel lavoro sia destinato a rimanere incompleto, e al tempo stesso sa perfettamente che quel lavoro non ha fine, che la fine si protrae nell’eternità, oltre l’esistenza”.

L’autrice si ispira al vasto repertorio letterario italiano e straniero, non può sfuggire il parallelismo con il triestino Umberto Saba che attraverso la poesia racconta la prima e la seconda guerra mondiale, la tragedia personale dovuta a una Storia che stravolge e coinvolge. La scrittrice croata, come Saba, immortala parole fluide in un mare di rabbia, arricchendo fatti collettivi con sentimenti e passioni.  Ma in “Trieste” si ritrovano anche dati, immagini, schemi, a  testimoniare che Haya, nella sua tentennante ricerca della verità, archivia la parola caso, “quel famoso mattone che cade sulla testa di una persona”. Legami e decisioni, collettivi e personali, la portano a stilare una trama sempre più larga, più chiara e meno silenziosa. Documenti ufficiali e ricordi personali vengono spolverati da archivi di Stato, da uffici e dalla memoria a lungo termine di chi ha vissuto nascondigli, persecuzioni, prigionia. Si tratta di un cammino a ritroso che comincia con la perdita che svuota e raggela sentimenti e che finisce con il ritrovo di piccole verità che, certo, non rallegrano, ma alleviano la rabbia per la perdita di amore e giustizia.

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La scrittrice, come una brava storica, avanza su quei sentieri impervi cronologicamente e per argomenti: non le sfugge nulla, anche quando il suo stile da report magicamente si riempie di stati d’animo che caricano i lettori di orrore, tristezza per tanta mostruosa disumanità.

Orrore e ancora orrore e rabbia e ancora rabbia quando, ad esempio, si legge:

“Il processo di selezione della razza dei bambini rapiti era rigoroso, consisteva in numerose visite mediche e esami: venivano misurati i crani, la loro circonferenza e forma, venivano misurati gli arti, la loro lunghezza e forza, veniva misurata la conformazione del bacino femminile, veniva monitorato il coordinamento dei movimenti, veniva misurata l’intelligenza, veniva misurata la forma del naso, delle unghie, della bocca, degli occhi, ogni cosa era stabilita secondo chiare norme”.

Orrore, orrore e ancora rabbia in un libro che sa come raccontare la guerra. 

Autore: Francesca Ielpo

Mi laureo in Lettere presso la Sapienza di Roma, per poi continuare con una magistrale in Editoria e Scrittura. Giornalista pubblicista, mi dedico anche all’insegnamento dell’italiano per stranieri. Prima in quella città sporca e bella, ora in Turchia, dove profumo sempre di mare ma annuso la guerra.

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