Le intermittenze della morte, di José Saramago; ipotesi di una vita senza la morte.
Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre le persone smettono di morire. Così, di punto in bianco, senza alcun motivo apparente, nessuno muore più di vecchiaia e di malattia, né per incidenti o ferite. Nel Paese (in un Paese senza nome e solo lì, ché oltre le frontiere la morte e la vita continuano il loro corso normale) sembra che il sogno proibito dell’uomo, quello dell’immortalità, si sia finalmente avverato. Ma la vita senza morte, più che un sogno, si dimostra un incubo: il Paese si avvicina al collasso economico e sociale, le case di riposo e gli ospedali si riempiono di corpi né vivi né morti (ché non morire non vuol dire guarire, ma semplicemente vegetare, incoscienti e impotenti, appesi a un filo teso che non si può spezzare) e la maphia (col ph) imbastisce sottobanco il traffico di chi vorrebbe morire ma non può. E quando la morte ritorna, con la sua falce e il cappuccio nero, consegnando lettere per avvertire le persone sette giorni prima della loro dipartita, qualcosa nel nuovo meccanismo s’inceppa. Colpa di una busta viola – destinata ad un semplice violoncellista – che si rifiuta di arrivare a destinazione. Così alla morte, punta nell’orgoglio, non resterà che prendere provvedimenti straordinari per rimediare all’errore.
Questione di stile
Questa, in breve (senza svelarvi il finale, forse un po’ prevedibile, ma certo non scontato), è la storia de Le intermittenze della morte (Feltrinelli, 218 pagine) di José Saramago. Lo stile del premio Nobel portoghese è inconfondibile: periodi lunghi, pieni di incisi e di digressioni, punteggiatura minimale, dialoghi integrati nel corpo del testo, cambi repentini del punto di vista del narratore, continui rimandi ad altre opere dell’autore. La scrittura di Saramago è unica: di primo acchito disorienta, stupisce, mette in difficoltà perché richiede una lettura attenta e concentrata; ma sa poi avvincere con un ritmo e una ricchezza rari.
Pensa per esempio di più alla morte….
Le intermittenze della morte è un romanzo tutto basato sulla sospensione dell’incredulità (accettate le premesse paradossali da cui parte, tutta la vicenda ha una coerenza interna) e sull’ironia. Sì, perché il tutto viene trattato con leggerezza, con uno sguardo insieme complice e sornione. Un romanzo, anche, diviso in due parti, capace di tenere due registri e due velocità. La prima parte del lavoro di Saramago, che oscilla tra commedia e distopia, immaginando gli effetti della scomparsa della morte sulla società e sulle persone, è fondamentalmente una grande satira del potere e dei meccanismi politici, una critica alle religioni e alla Chiesa in particolare (uno dei grandi temi dello scrittore portoghese), e alla società moderna. Eppure, sotto la patina di un’ironia leggera, Le intermittenze della morte fa riflettere e colpisce. Vivere, sembra suggerirci l’autore, è anche saper morire: accettare la morte è accettare la vita. La storia della morte (una di quelle piccole, da poco, che si firma con la ‘m’ minuscola) e di «quel violoncellisa che non potrà morire a quarantanove anni perché ormai ne ha compiuti cinquanta», tema della seconda parte dell’opera, ha i toni più rarefatti della favola, e suona come una metafora della potenza dell’arte, unica attività umana in grado di esorcizzare – ma non sconfiggere – la morte. La chiave di lettura e la ricchezza de Le intermittenze della morte stanno nella citazione di Wittgenstein che Saramago pone come esergo al romanzo: