Intervista a Dario Vergassola
Ho conosciuto Dario Vergassola qualche settimana fa e, lo dico con tutta la sincerità di cui sono capace, mi sono trovata di fronte ad una persona estremamente intelligente, interessante e disponibile. Dopo alcune chiacchiere, gli ho chiesto se fosse disponibile per una intervista sul suo libro La ballata delle acciughe e… Qui sotto il risultato.
Essere umano, attore comico, cantante, conduttore televisivo ed ora, scrittore. In quale veste, ti senti davvero Dario Vergassola?
Facciamo come animale, più che essere umano, mi trovo molto bene. Poi, questa veste da scrittore mi ha divertito parecchio; una rivelazione, direi. È stato un modo, per me, per raccontare cose che stavo dimenticando e per riuscire ad inventarmi storie che non pensavo di avere in testa.
La ballata delle acciughe, tuo primo romanzo, è uno spaccato di vita. Al bar Pavone, circolano personaggi, a dir poco caratteristici. A quale sei più affezionato?
Ognuno dei personaggi è parte integrante di quella che è stata la mia infanzia e adolescenza. Il bar è come un centro di igiene mentale omeopatico, il posto dove venivi preso in giro e ti sentivi protetto allo stesso tempo. Lo scemo del quartiere aveva anche il suo posto e ci facevi attenzione, ma tutti facevano parte di questo microcosmo e ti ci trovavi anche bene. Sono proprio amici, amici con i quali ho fatto elementari, medie e superiori, alcuni con difetti macroscopici ma, in fondo, con una grande umanità.
Mentre leggevo, meglio dire divoravo le pagine, sentivo la storia che si impossessava sempre più del mio sorriso. Dimmi la verità: sorridevi anche tu, mentre la scrivevi?
Avrei tanto voluto essere quello che si impossessava di chi legge, cioè se sono lettrici (ride ndr). In realtà sono partito allo sbando cercando di voler scrivere una cosa ma avevo solo un inizio ed una fine, poi, a poco a poco, ho trovato altre storie che avevano un senso compiuto ed un po’ me ne sono sorpreso. Ero davvero felice perché sono molto pigro nello scrivere. Man mano che andavo avanti, mi piaceva sempre di più. Io non mi sopporto quando faccio battutte e quando cazzeggio, né visivamente, né fisicamente e neanche la voce, ma scrivere mi ha fatto davvero piacere.
Scrivere è compiere un viaggio, di cui spesso non si conosce la meta, penso. Gino, avventore del bar Pavone, la sua meta la conosce bene e, percorrendo – quanti km? -, arriva a Woodstock. Come definiresti, il suo percorso?
Il percorso di Gino che va a Woodstock, che è frutto di una promessa fatta ad un amico che è morto, è una specie di pellegrinaggio laico. Non è Santiago de Compostela, non è altro luogo, ma è Woodstock. Per noi del bar, della nostra generazione è stato un segnale ben preciso. Il mondo si identifica in prima e dopo Woodstock. Noi, del bar, però non ci siamo mai andati e l’idea di mandare un amico a compiere un lungo viaggio per filmare cosa è rimasto di quel grande festival, mi sembrava un’ottima idea come filo della narrazione. Gino parte dalla periferia di un quartiere molto disgraziato, arriva in America, ma non fa mai le città. Me ne sono reso conto dopo e non mentre scrivevo. Si infila, anche lì, in piccoli posti e periferie. Se vogliamo è un’America abbastanza cinematografica e letteraria. Gino torna più sicuro di sé e, grazie a questo viaggio, riscopre quelle cose che aveva considerato banali vivendole tutti giorni. Gli ci è voluto un viaggio lontano per vedere ciò che ha vicino.
Liguria, La Spezia; il tuo paese ed il luogo dove si trova il bar Pavone. Quanto è profondo il legame con la tua terra?
Penso lo sia come lo è per tante persone. La mia famiglia ha lì le proprie radici. La cosa assurda è che noi, da ragazzini, non vedevamo delle cose che riusciamo, invece, a vedere con gli occhi di adesso… Un po’ come Gino. La mia infanzia l’ho passata alle Cinque Terre e vedevo che tutti gli amici, fatti i diciotto anni, non vedevano l’ora di andarsene a Rimini. Tornavano, poi, non tanto delusi di Rimini dove c’erano un sacco di cose, ragazze, e si divertivano un sacco, ma con la voglia di stare di nuovo a casa loro, tra il mare e le colline. A volte, solo vedendo altri posti, apprezzi quello che è il tuo. Il legame c’è, non si può negare.
Ufo e acciughe parlanti. Tutto accade e tutto può accadere. Tutto è come non sembra. Come in un quadro di Dalì, alla fine, ci si accorge che niente è, comunque, fuori luogo. Il cerchio si chiude alla perfezione. Mi resta solo un’ultima domanda. Consideri le acciughe sotto sale più pungenti, nei loro dialoghi, di quelle sott’olio?
Wow, è una bella domanda. Ti ringrazio e ti rispondo in un modo, che solo frequentando i grandi mangiatori di acciughe – i liguri e di delfini, e tutti gli altri animali marini, credo -, si può fare. Devi sapere che le acciughe sott’olio, vanno prima messe sotto sale. Devi, quindi, pulirle, levar loro la testa e la lisca, metterle in salamoia con dei pesi sopra e quando sono belle salate, sciacquarle, metterle su un piatto e condirle con olio extravergine di olive liguri, prezzemolo e aglio.
… e poi iniziano a parlare, quindi…
Iniziano a parlare, sì, ma dipende anche da quello che bevi. Loro parlano e noi cantiamo. Nei bar dove andavo io, le davano gratis, perché poi bevevi per due giorni; mezzo uovo sodo e acciughe non mancavano mai sui banconi.