Se chiudo gli occhi, intervista a Simona Sparaco
Dopo aver recensito il suo ultimo romanzo Se chiudo gli occhi, opera che mi ha davvero incantata tanto quanto la precedente Nessuno sa di noi, ho avuto la possibilità di intervistare l’autrice Simona Sparaco.
Come nasce Se chiudo gli occhi?
Se chiudo gli occhi nasce da una lunga riflessione sulle donne della mia terra, le Marche. Sono partita da una sensitiva marchigiana realmente esistita, Pasqualina Pezzola, che mi ha ispirato il personaggio di Nora, e poi ho incrociato le mie ricerche con gli studi sulle sibille fatti dalla scrittrice Joyce Lussu. Il tutto perché volevo scrivere un libro che raccontasse il viaggio di formazione di una donna, che passa attraverso le grandi lacune della sua vita, compreso suo padre, prima di trovare un riscatto. Un romanzo introspettivo e complesso, ambizioso almeno nelle intenzioni, e molto vicino al mio mondo.
Il viaggio di Viola e suo padre ha uno scopo catartico e analitico. Si può sempre recuperare un rapporto anche tutto fa pensare che sia troppo tardi?
No, nella vita non sempre. Ma nei romanzi, quando sono in grado di coinvolgere il lettore, l’impianto narrativa sfrutta il “troppo tardi”, lo porta all’esasperazione al fine poi di regalare una catarsi.
Anche in Nessuno sa di noi dopo la tragedia dell’aborto terapeutico, i due protagonisti si allontanano mettendo a rischio la loro unione ma poi si ritrovano. C’è sempre una seconda possibilità in amore? Perdonare è importante?
Il perdono è un atto necessario all’evoluzione di ogni individuo. Nel perdono c’è la staticità di un’accettazione ma anche il movimento della vita che torna a rivolgere il suo sguardo all’avvenire. Il perdono è la catarsi necessaria all’emancipazione.
La famiglia mancata è il trait-d’union dei due romanzi. Quanto conta per lei il valore della famiglia nella società attuale e i ruoli complementari di entrambi i genitori?
Per me una famiglia può anche essere composta da soli due individui. Io credo nella forza del prendersi per mano, dell’esserci sempre nei momenti cruciali e tra le piccole pieghe del quotidiano. Tra i genitori è più importante l’armonia del genere di appartenenza. I miei romanzi mettono spesso in scena difficoltà e incomprensioni familiari. Vengo da una famiglia unita che ha sempre fatto squadra nei momenti difficili. Inevitabilmente tendo a mettere in scena situazioni che potrebbero spaventarmi o irrigidirmi, credo sia un modo per esorcizzare le mie paure.
Se chiudo gli occhi è ambientato per lo più nelle Marche. Cosa la lega a questa regione? Quanto c’è di autobiografico nel libro?
Ho vissuto ad Ancona quando ero bambina, la mia famiglia è originaria di lì. È il luogo della mia infanzia, dei sapori, degli odori a me più cari. Le Marche sono una regione ricca e poliedrica, i marchigiani invece non sanno valorizzarsi abbastanza. La Sibilla è una montagna che da secoli attrae alchimisti, viandanti, poeti. Nel 1400 Antoine de la Sale si spinse fino alla sua grotta per conoscere il suo mistero, e oggi sono in pochi a conoscere il suo paradiso, le sue leggende. Da donna, e da marchigiana, non potevo non scrivere un romanzo che celebrasse anche il potere immaginifico delle donne e della natura. Per il resto, non c’è molto di autobiografico, se non che anch’io, insieme a Viola, ho compiuto un viaggio alla ricerca della mia voce più autentica, e sono andata via da un luogo che non mi apparteneva per tornare a sentirmi parte integrante della mia terra.
Il romanzo è un libro magico con elementi esoterici, di miti, leggende, intimità focolari e tradizione, valori fondamentali e semplicità. Se chiudo gli occhi è per ascoltare se stessi? Li ha chiusi per scrivere questo romanzo?
Li ho chiusi eccome. Basti pensare che mentre lo scrivevo mi trovavo nel bar di un enorme centro commerciale, in una città moderna e avveniristica come Singapore. Era lì che vivevo fino a quest’estate. Ho cercato il monte Sibilla dentro di me prima ancora che sulle pagine che stavo scrivendo, e ho cercato di usare il potere dell’immaginazione, e di una memoria atavica, sepolta da qualche parte dentro di me. Ho imparato, attraverso questo libro, a dissotterrarla, e a farla di nuovo mia.
Il suo è uno scrivere cinematografico, secondo me, perché descrive sapientemente le scene dei libri. I Monti Sibillini e tutto il paesaggio con le pennellate di colore sono davanti agli occhi (se chiusi…) del lettore. Ma al tempo stesso è netta, asciutta e mai eccessiva. Frutto della sua attività di sceneggiatrice?
Credo che la mia scrittura risenta inevitabilmente della mia formazione. Quando scrivo, ho bisogno di vedere io per prima il mondo dentro il quale ho deciso di immergermi. Altrimenti la magia non funziona.
Si sa che per scrivere ci vuole rigore. C’è chi si isola, chi si impone un certo numero di pagine quotidiane. Lei che ora è anche mamma di un bambino di due anni, come si divide e come concilia due ruoli importanti? La scrittura è un lavoro programmato ora oppure è ancora estro e ispirazione del momento?
Bella domanda. Prima di diventare mamma ero anarchica, scrivevo assecondando l’ispirazione a qualunque ora del giorno e della notte. Poi è arrivato Diego, e sono diventata una sorta di operaia che deve timbrare il cartellino. Se non c’è rigore, non si arriva alla fine di un libro. L’arte poco si concilia con le responsabilità. Il personaggio di Oliviero riflette questo aspetto. Lui è un artista diventato padre, per certi versi lo capisco, mi fa tenerezza, non lo condanno.
Ringraziamo Simona Sparaco e l’ufficio stampa di Giunti Editore per la disponibilità. Intanto, vi consigliamo di leggere la recensione dell’ultimo libro dell’autrice, oggetto dell’intervista: Se chiudo gli occhi.
Annalisa Andriani
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