Riparare i viventi, di Maylis de Kerangal. Storia di un cuore
Riparare i viventi (Feltrinelli, 224 pagine) è un libro senza protagonista, ma con un centro. Come un buco nero che risucchia e attrae tutto, come un vortice che catalizza le storie e le vicende dei diversi personaggi che si muovono, vivono e muoiono (come piccole spirali risucchiate da un gorgo, sinfonia di moti centripeti) nelle pagine di quest’ultimo romanzo della francese Maylis de Kerangal.
Quel centro è un cuore. Ammasso di fibre muscolari, insieme di alveoli e valvole, di atri e ventricoli, un muscolo della grandezza di un pugno che pompa sangue per ottanta volte al minuto. Un cuore, anzi il cuore, di Simon Limbres, che paradossalmente continua a battere nel corpo senza vita di un ragazzo di soli diciannove anni (incidente stradale, trauma cranico, coma dépassé, morte cerebrale).
Organo che ”racchiude la vita stessa, una potenzialità di vita”. Perché il cuore di Simon diventerà il cuore di Claire, verrà espiantato da un corpo in cui mima grottescamente la vita per venir impiantato in un altro che ne ha disperatamente bisogno, a sostituire un altro cuore, questo sì malato, debole, avvizzito.
La storia del cuore di Simon Limbres
Riparare i viventi è la storia di un trapianto. Ventiquattro ore: dalle 6 del mattino alle 5.59 del giorno successivo. Ma in quelle ventiquattro ore si incrociano e si scontrano destini, tragedie, ansie e paure, più di quanto accada in molti altri romanzi dal respiro temporale ben più ampio. Riparare i viventi si svolge su vari binari, è un moto centripeto, cadenzato e struggente, che coinvolge e sconvolge, e adotta i punti di vista di persone diverse ma tutte legate a quell’unica tragedia iniziale.
Il libro di Maylis de Kerangal è la storia del dolore disperato e inconsolabile dei genitori, costretti a fare una scelta difficile e crudele (staccare le macchine che conservano il corpo di Simon, donare gli organi affinché la sua morte sia vita per qualcuno) e a confrontarsi con la morte di un figlio; è uno spiraglio sulla vita dei medici, degli addetti ai trapianti, degli infermieri, della loro intimità, del loro rapporto con un lavoro a volte ingrato e difficile, delle loro ambizioni: personaggi che si muovono come un’unica macchina ben oliata, un dispositivo volto a conservare la vita nella morte; è il racconto delle ansie di chi quel cuore dovrà ricerverlo, dono enorme per cui non potrà mai ringraziare né potrà ricambiare. E in sottofondo, c’è sempre il battito cardiaco (cuore come organo simbolico e muscolo fin troppo carnale), il ritmico movimento di sistole e diastole che tiene incollati tutti i pezzi della storia.
Seppellire i morti e riparare i viventi
Il romanzo della scrittrice francese è stato paragonato da L’express a una tragedia greca. In effetti in Riparare i viventi si respira un lirismo dolce ma struggente. La prosa di Maylis de Kerangal è rapida, veloce, fatta di periodi lunghi, di frasi che si accavallano l’una sull’altra come le onde tanto ammirate da Simon. Graffia come un bisturi, per la crudezza delle scene, per la descrizione precisa e particolareggiata della prassi operatoria e dell’anatomia esterna (muscoli, sangue, ossa, carne) e interna (sentimenti, paure, dolore, amore) dei suoi personaggi. A volte, si avverte un che di artefatto nel tono fin troppo didascalico con cui vengono enumerate procedure, iter burocratici, passaggi di consegne, terapie e diagnosi. Così come alcune digressioni sul passato e sulla vita dei vari personaggi (che pur fanno parte di un unico grande organismo, sono il coro che nella tragedia antica faceva da contrappunto al dramma) risultano francamente noiose, a volte fuori luogo nel battito serrato della vicenda.
Eppure, Riparare i viventi è un libro forte, bellissimo, che consiglio a chiunque di leggere. Un libro che parla della vita attraverso la morte. Cos’è la vita? È solo il corpo che possiamo vedere, toccare (quel corpo in cui un cuore può continuare a battere attaccato a una macchina anche quando della persona non rimane niente), un insieme di organi che lavorano senza sosta, o c’è dell’altro? Cosa ci rende vivi, se il cuore che era di Simon, che batteva per lui e insieme a lui (”Cosa sia questo cuore umano, dall’istante in cui ha cominciato a battere più forte”, si chiede l’autrice nell’incipit, bellissimo, del libro) può ridare la vita e un futuro a Claire, pezzo di ricambio organico e inestimabile? Com’è possibile ricominciare a vivere dopo esser stati a contatto con la morte, soprattutto se è quella di un figlio? Perché alla fine, tutto il senso, altissimo e disarmante, di Riparare i viventi sta in una frase: