I morti lo sanno, il caso vero e immaginario delle sorelline rapite trent’anni fa
In ogni momento, qualcosa può abbattersi sulla tua esistenza e sconvolgerla per sempre: si legge negli occhi della piccola passeggera di un Suv che finisce fuori strada e precipita nella scarpata. Quello sguardo ha colpito la guidatrice che ha provocato il sinistro, scivolando con la sua autovettura sulla pozza d’olio trascurata dagli operai che avevano rimosso un incidente precedente. Non è colpa mia, ripete la donna, quarantanni, poco più poco meno. Non ho fatto niente, ho perso il controllo. Basta un istante e dalla normalità si entra in un incubo: lo sa bene Laura Lippman, collaudata scrittrice statunitense di thriller, come I morti lo sanno (edito da Giano, 380 pagine 12 euro) che da ragazza, ha vissuto indirettamente una vicenda analoga a quella che racconta. Un caso di cronaca che ha sconvolto la sua città nel 1975. Non è colpa mia. Lo dice a se stessa, più che al giovane poliziotto che l’ha seguita e soccorsa. Poi le ha letto i suoi diritti. Perché è in stato di fermo, sia pure ospedalizzata al St. Agnes di Baltimora per la frattura al braccio e le ferite lacero contuse riportate. È accusata di aver abbandonato il luogo in cui ha causato la sciagura. Non si è fermata per affrontare le conseguenze, come doveva. Non ha prestato soccorso. Dice di aver ceduto al panico. Una circostanza ovvia. Eppure viene raggiunta in clinica dal detective Kevin Infante, della Squadra omicidi della Contea ed anche da un bravo avvocato, anzi, un’avvocata, tanto tignosa nella professione quanto sciatta e trascurata nell’abbigliamento, Gloria Bustamante, notoriamente e dichiaratamente gay. L’ha coinvolta Kay Sullivan, altro personaggio descritto con intensità da Laura Lippman. È un’amica della legale, ma non l’amica, tiene a precisare. Non sono lesbica, insiste. Però sta molto sulle sue, è solitaria, i colleghi dell’ospedale, dove lavora come assistente sociale, la chiamano addetta ai servizi antisociali. La ragione di tanto movimento è che la donna alla guida della vecchia Valiant andata in testacoda e finita contro il Suv – è bastato un leggero contatto a spingerlo via – si è lasciata sfuggire una dichiarazione sorprendente. Ha detto di essere una delle sorelle Bethany, al centro di un caso clamoroso una trentina di anni prima, la scomparsa di due ragazze, nel marzo 1975. Una aveva quindici anni, l’altra ne avrebbe compiuti 12 di lì a poco. Uscite di casa dopo aver strappato ai genitori il permesso di raggiungere da sole il centro commerciale, non erano mai tornate. Truffatori e mitomani si erano accaniti a lungo, aggiungendo false piste e vane speranze ad una vicenda sconvolgente per i familiari e non solo. La donna misteriosa dichiara di essere Heather Bethany, la più piccola. Dice anche che la sorella maggiore, Sunny (Sunshine, raggio di sole, odiava quel nome) è stata uccisa sotto i i suoi occhi, il collo spezzato. Tutto qui, non molto di più. Mi dispiace, non posso parlare. Non intende dire altro e si rammarica di avere rivelato anche quel poco. L’assassino? Non c’è nessuno da arrestare, se n’è andato da un bel po’. Il romanzo comincia a dipanarsi intorno alla ex ragazzina scomparsa ed ai vari coprotagonisti e comprimari, uomini e donne, tutti accuratamente presentati secondo i caratteri, le qualità e i difetti rispettivi. E il mistero – tra una quantità di false piste, fino alla non scontrata rivelazione finale – riconduce ad un vero episodio di cronaca locale. A metà degli anni Settanta, le sorelline Lyon scomparvero. Lasciavano i genitori e due fratelli, come si vede senza alcuna somiglianza con la famiglia Bethany. Cosa sia successo loro non si è mai più saputo, a differenza di quanto è accaduto alle Sunny ed Heather immaginarie nei trent’anni che hanno seguito la sparizione. Sono i vantaggi della fiction sulla realtà. I lettori dei romanzi sono sempre un passo avanti rispetto a quelli dei quotidiani o agli utenti dei media, per i quali non sempre la verità risulta mai chiara in tutti i suoi aspetti.