“Il pesce fuor d’acqua”, il nuovo romanzo di Mario Caramel
È sempre una questione delicata recensire un romanzo ispirato a vissuti autobiografici e, da questo punto di vista, Il pesce fuor d’acqua e la mutevole proporzione tra essere e fare, secondo libro di Mario Caramel, non ha posto eccezioni. Ma facciamo un passo indietro…
La trama
Dopo le lunghe navigazioni mediterranee e atlantiche che hanno visto Marco Epifanio protagonista nel primo romanzo di Mario Caramel, Pensa con la tua testa, con Il pesce fuor d’acqua ritroviamo il capitano Marco ai Caraibi. Siamo all’inizio degli anni Novanta; sono gli anni della prima guerra del Golfo, e il fantasma del terrorismo ha bloccato a casa molti turisti americani ed europei, lasciando il capitano senza lavoro e costringendolo a una lunga vacanza forzata nel marina di una città del Caribe, una gabbia dorata per diportisti il cui recinto di filo spinato tenta, invano, di isolarla dalla vita reale che si svolge al di là. L’alienazione del giovane capitano rispetto a un certo modo arrogante e colonizzatore di vivere i viaggi e il mare, unita alla tensione e all’ansia che pervadono quell’ambiente solo in apparenza paradisiaco e dalle quali rischia di farsi travolgere, costituiscono per Marco il pretesto per lasciarsi alle spalle la vita di mare. Così, venduto il suo Grinta, la goletta acquistata dopo anni infaticabili come skipper in barche altrui e che, in assenza di lavoro, è diventata per lui una sorta di prigione, Marco torna in Europa.
Dopo una breve permanenza nella sua città natale, si trasferisce ad Atene come rappresentante per un’azienda italiana di prodotti per la nautica. Nella capitale greca spera di trovare una propria dimensione terrestre, ma le dinamiche e le interazioni che in mare gli erano familiari, a terra si capovolgono, e capitan Marco, abituato a rispettare le regole della Natura, si trova in difficoltà ad accettare quelle imposte dagli uomini. Le iniziali difficoltà linguistiche del protagonista, alcuni incontri poco fortunati, il lavoro che non riesce a decollare come sperato, la realtà di un paese estremamente nazionalista, che con difficoltà riesce ad ammettere i propri rigurgiti razzisti nei confronti dello “straniero”, e il senso di solitudine e di spaesamento (la sindrome da “pesce fuor d’acqua” cui fa riferimento il titolo) generato da tutto questo, fanno sprofondare il protagonista in una forte depressione e nella più totale prostrazione psicofisica, che vede il suo apice, ma anche una catarsi, nell’incontro allucinato con l’antico saggio Pitios, il quale riesce a dare un senso al mondo dei numeri (altra costante del libro) nel quale Marco si era rifugiato. Toccare il fondo porterà Marco a ricalibrare la mutevole proporzione tra “essere” e “fare”, ristabilendo quell’equilibrio che scopre racchiudere la chiave della propria felicità. Da quel momento, la stessa Atene in cui fino ad allora si era sentito uno straniero torna a essere il luogo delle possibilità e degli incontri, e Marco comincia finalmente ad assaporare il futuro che aveva immaginato per sé quando per la prima volta aveva messo piede a terra. È facile però farsi prendere dalle accelerate e sbandare, nella corsa del “fare”; riuscirà capitan Marco a imparare ancora una volta dai suoi errori e a ripristinare nuovamente il prezioso equilibrio fra il suo “essere” e il suo “fare”?
Alcune considerazioni
Come lo stesso autore anticipa nella nota introduttiva al libro, le esperienze di vita del marinaio musicista Marco Epifanio sono quelle vissute in prima persona da Caramel o da altri marinai che ha incontrato nel corso della sua vita. Una vita senz’altro fuori dal comune, quella dell’autore: musicista, si imbarca diciannovenne “per un lungo viaggio”, facendo della navigazione il suo lavoro, e naviga come professionista per quasi vent’anni, per poi trasferirsi, nel 1996, in Grecia, prima a Rodi e poi ad Atene; oltre all’italiano parla inglese, francese, spagnolo e greco. La musica è, insieme al mare, la sua grande passione, sempre presente nei suoi libri. Una vita vissuta, insomma, che, stando a quanto emerge dalla sua parziale trasposizione romanzesca, deve essere stata finora ricca di luci non meno che di ombre, e che proprio per questo merita di essere raccontata.
E qui mi si è posta la questione con la quale ho aperto questo post. Il pesce fuor d’acqua è un libro con molte potenzialità, tanto per la storia del protagonista (a maggior ragione perché sappiamo essere frutto di esperienze reali), quanto per le felici intuizioni che accompagnano la descrizione, semplice e puntuale, di certi particolari stati d’animo o di alcuni tratti caratteriali dei personaggi; gli ambienti, marini o urbani, sono in genere resi all’immaginazione del lettore con pochi efficaci tratti e senza fronzoli descrittivi. Tuttavia il romanzo, nel complesso, risente molto di un approccio didascalico che ne appesantisce la lettura, finendo per trasformarsi a più riprese in un elenco di aforismi dall’intento edificante; in più punti, inoltre, sembra trasparire una sorta di autocompiacimento del protagonista verso la propria comprensione del mondo, il proprio modo di porsi verso gli altri, la propria capacità di autocritica e di imparare dagli errori ecc., che piuttosto che spingere il lettore all’empatia finisce per allontanarlo. Ed è un vero peccato, sia perché nella nota introduttiva l’autore è invece molto dialogante e comunicativo con il lettore, sia perché la storia del protagonista (e/o dell’autore?) avrebbe meritato che gli fosse resa giustizia in tutto il libro con lo stesso approccio chiaro, semplice e diretto che caratterizza le felici intuizioni di cui accennavo sopra. Altri due punti deboli del romanzo sono senz’altro la punteggiatura e gli errori nei toponimi; per quanto possano sembrare solo questioni di forma, finiscono per diventare facilmente questioni di sostanza. In ogni caso, non si tratta di niente che non possa essere rivisto in una seconda edizione, che senza dubbio auguro all’autore di pubblicare.
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