Un amore partigiano di Mirella Serri: Gianna, Neri e la Petacci
Alle 3,30 del mattino di un piovigginoso 28 aprile 1945, due donne scesero da Fiat nere, davanti al casale De Maria, a Bonzanigo, sul lago di Como. Una, trentatreenne, aveva il viso tondo, pallido, quasi cereo. L’altra, più giovane, i capelli ossigenati. Erano molto diverse Claretta Petacci e “Gianna”, nome di battaglia di Giuseppina Tuissi, staffetta partigiana, ma il gergo dell’epoca le chiamava collegatrici. La prima dipingeva, suonava l’arpa e il violino, preferiva camicette di seta. Romana, figlia del medico dei papi, era l’amante del Duce, derisa dagli italiani. Pina invece era nata da operai comunisti ad Abbiategrasso e amava un leader della Resistenza comasca, Luigi Canali, il “Capitano Neri”. Erano accomunate da una sentenza di morte, ma entrambe speravano di scamparla, scrive Mirella Serri, aprendo con le due figure femminili l’intensa ricostruzione di “Un amore partigiano”, per Longanesi, 220 pagine. Ed entrambe moriranno. La Petacci di lì a poco, nel pomeriggio. La Gianna sarà uccisa nei primi di maggio e gettata nel lago. Un colpo alla testa e uno in pancia, così il corpo “succhia e va a fondo”, com’è già accaduto qualche giorno prima a Neri. A condannarli, non i fascisti, che pure li avevano catturati e torturati, ma i compagni della Brigata Garibaldi, di fede comunista, come Canali e la Tuissi, del resto. Perché questa è la storia di Gianna e Neri, eroi scomodi della Resistenza contro la Repubblica mussoliniana, cancellati dalle ricostruzioni ufficiali della Liberazione perché scheletri nell’armadio di certi condottieri e poi parlamentari falce e martello. E lei anche perché testimone della scomparsa dell’oro di Dongo – i beni ingentissimi sequestrati ai gerarchi che accompagnavano Mussolini nella fuga – dato in custodia ai dirigenti del partito a Como, ma mai depositato in banca, come invece concordato. Protagoniste due coppie, su fronti opposti: Claretta e il suo Ben, Luigi Canali e la Gianna. Spicca il leggendario Neri, ufficiale dell’esercito e capo di stato maggiore della 52a Brigata garibaldina. A 31 anni, nel 1943, ha fondato il primo Cln a Dongo, ma avversa i metodi stalinisti ed è considerato un simpatizzante degli alleati. Non nascondeva critiche nei confronti della condotta dei leader garibaldini del comasco, ambigua e inefficace, dava a tutti del lei, evitando il voi dei fascisti e il tu dei socialisti. Quanto a Gianna, entrata nella resistenza dopo la fucilazione del fidanzato partigiano, era apprezzata dai capi, fino alle maldicenze del corvo. Fatale per tutti e due l’articoletto infamante sull’opuscolo clandestino “La Fabbrica”, che elencava le presunte malefatte di Neri: “dopo un compromesso col nemico, aveva tentato di avvicinare alcuni patrioti per farli arrestare”. Non si teneva in alcun conto il suo contributo alla lotta, le sue denunce dell’avventurismo e della condotta irresponsabile di certi comandi partigiani locali. Diventarono anzi aggravanti e facilitarono la condanna a morte per tradimento, comminata da un tribunale del popolo riunito nello sgabuzzino di un negozio di stoffe. Poteva essere eseguita da chiunque, in qualunque momento e senza preavviso. La colpa di Pina? Da sentenza, non altro che “essere l’amante di cotanto delinquente”. Ma se Gianna aveva ceduto a torture feroci – ancora più crudeli dopo la fuga del compagno, calatosi da cinque metri – si era limitata a indicare rifugi dismessi e patrioti già al sicuro. Venne rilasciata, proprio per alimentare il sospetto e indebolire la compattezza del fronte resistenziale. I due tornarono tra i ranghi partigiani nelle settimane della liberazione, nel vivo delle ore convulse degli episodi di Dongo, culminati con l’esecuzione di Mussolini e Claretta (e col sequestro dell’oro). I garibaldini più vicini, conoscendoli e apprezzandone la lealtà, erano certi che non avessero tradito, ma i due non ascoltarono chi li esortava ad espatriare. Erano sicuri che la loro buona fede li avrebbe salvati, ritenevano che il Cln centrale e i comandi milanesi del Corpo dei volontari per la libertà li avrebbero scagionati. Sottovalutavano il clima avvelenato in certi ambienti e tra certi vertici, sul lago, soprattutto l’odio personale coltivato in quegli anni da pochi, pochissimi, che però contavano. E agivano, implacabili. Non traditori Neri e Gianna, ma traditi. Dalla storia. Dopo settant’anni, la docente di giornalismo e letteratura alla Sapienza fa giustizia di un errore, che ha capovolto la realtà: “la memoria ha sbagliato direzione, dimenticando l’impegno della staffetta-Giusi e mutando invece l’altra in innamorata esemplare”. Claretta è stata rappresentata come una bambola estranea ai giochi di potere, non riconoscendo quello che era davvero, una “fervida sostenitrice di Hitler e della sua politica razziale, istigatrice della caccia al partigiano e all’ebreo”. Per il capitano Canali e Pina Tuissi “è stata fatta giustizia da personalità politiche come l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Walter Veltroni – conclude Mirella Serri – ma la cancellazione della loro memoria resiste e ancora non ha trovato accoglienza in tanti ricordi e fonti storiche”.
LONGANESI
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