Le Malebolge. Viaggio tra gli incubi semi-seri di Alexandro Sabetti
Ci sono libri che vivono di vita propria, al di la del senso, del gusto, dell’interpretazione, della leggerezza o dell’impegno profuso ; libri attraversati da un espressività oltre il narrante, nell’uso delle parole, nei fatti non circoscritti alla pura logica del racconto ma che trascendono la vita stessa che raccontano per ellissi, paradigmi involontari, varchi temporali. Come questo libro che parte da una storia di manager, multinazionali e licenziamenti (“Dovete odiare e provare disgusto per l’economia se volete imparare a capirla per maneggiarla ed indirizzarla. Quando lo farete, allora comincerà anche a piacervi, a darvi brividi.”) , prosegue con storie “probabili” dei nostri giorni (“Se volete superare la crisi dimenticate la “tenerezza”, la “sensibilità”, l’unità e la “stabilità” come le avete sempre conosciute.”) e finisce nei misteri insondabili del cosmo profondo: “Inconcepibile era tutto: supremo e incommensurabile, non nato e imperscrutabile, seppur visibile. Impensabile.” Alexandro Sabetti, “Il più grande autore contemporaneo sotto i 55 anni – come si è autoproclamato – l’unico autore postumo ancora vivente”, torna con questo nuovo, sorprendente libro: Le Malebolge (Tempesta Editore). Fin dal titolo di questa raccolta di racconti, uniti da un filo conduttore che ne fa un unico corpo lettarario, s’intuisce la direzione; nell’omaggio al dantesco ottavo cerchio dell’Inferno, nel quale sono puniti i fraudolenti, le Malebolge, nome composto inventato da Dante col criterio retorico dell’ipallage (male + bolge = bolge popolate da malvagi). E ancora dantesco nel numero dei racconti: nove, il multiplo del tre tanto caro al Poeta. Detto questo, l’omaggio termina così, in superficie, ovviamente. Lo scritto invece prende una sua direzione, come dicevamo, coerente e contraddittoria, ossimoro apparente ma invece funzionale alla scrittura a cui ci ha abituato l’autore del già complesso “Soffione Boracifero”; una scrittura che s’arricchisce di personaggi verosimili e improbabili, tutti perfettamente a loro agio nel loro tempo, nel loro quadro narrativo, una fauna degna di Moebius, come si legge nella quarta di copertina curata da Fulvio Abbate. E’ il nostro tempo, quello che viviamo tutti i giorni correndo o attraverso la lente deformante di internet, tra conquiste in chat, colloqui improbabili di lavoro e massacri continui anestetizzanti, le morti lontane che ricordano vagamente il buneliano “fascino discreto della borghesia”. Un mondo visto attraverso gli occhi, principalmente, della parte dominante: i grandi manager delle multinazionali, sacerdoti di questo tempo sacro senza divinità. Sono loro i demoni di queste Malebolge: demoni in giacca e cravatta ma, addentrandosi nei meandri della narrazione, demoni non solo immaginari. E il dubbio resta. Il capitolo finale, Astaroth, è un salutare pugno nello stomaco per chi delle ossessioni ha fatto lo stile della propria esistenza. Ma è forse nel più surreale e obliquo dei racconti, dal tittolo impegnativo e ironico assieme, “Kafka”, che il senso sfuggente si materializza lividamente: “Quella sera un uccellaccio grigio e col capo nero, il becco grosso, forse un corvo, di quelli che si vedono spesso nei parchi pubblici, sui bordi dei fiumi che attraversano le città, comparve sul davanzale della finestra del soggiorno di Damiano, mentre se ne stava inquieto a mangiare una minestra davanti alla televisione. Se ne stette appollaiato pochi istanti poi, al primo movimento accennato dal padrone di casa, volò via. Sebbene sul momento non trovò alcun collegamento con i fatti di quella giornata, quella sua parte di sangue originaria del sud gli suggerì di non soffermarsi su argomenti che avrebbero potuto stimolare l’occhio interiore e renderlo sensibile alla presenza di visitatori più imprevedibili di lui. “
Maggio 22, 2014
Bella recensione, molto ispirata