Italiani brava gente, torna il saggio anti-assolutorio di Del Boca
È ancora tempo di “bravo italiano”, di “bono taliano”? Un mito duro a morire, sosteneva dieci anni fa lo storico novarese Angelo Del Boca, in un libro che creò polemiche e interesse, per ragioni opposte. “Italiani, brava gente?”, è tornato tra i tascabili delle edizioni Beat (336 pagine, 9 euro)e riporta d’attualità il suo carico di rivelazioni che contrastano con l’immagine che si è andata costruendo della mitezza e bonarietà della nostra gente, indulgente ed esterofila. Una proiezione consolatoria e autoassolutoria del comportamento collettivo, specie nella politica coloniale, che secondo Del Boca risulta infondata alla prova dei fatti.
Il cliché italiani brava gente viene creato dalla retorica risorgimentale, per contrastare i giudizi sprezzanti sul Bel Paese. Se per Metternich l’Italia restava una mera espressione geografica, Otto von Bismarck la considerava un’inutile “quinta ruota del carro”. E i suoi abitanti? Secondo l’abate Mabisson, a fine 1600, erano infiacchiti dal “tirare a campare” e nemmeno i viaggiatori stranieri del Grand Tour risparmiavano critiche tra Sette-Ottocento: “lassismo, malaffare, sporcizia”.
Nacque la voglia di riscatto, di sottolineare una presunta diversità dagli altri Paesi, aggressivi e colonialisti. Se tutti irrompevano sui teatri esteri con le baionette puntate e lo staffile pronto all’uso, l’orgoglio nazionalistico alimentava la propaganda dell’Italia turrita tricolore che col sorriso e una buona parola dispensava bonariamente agli incolti la nostra superiore civiltà. Tant’è che Mussolini andava fiero della crudeltà dei feroci bombardamenti aerei inferti a Barcellona, perché contrastava con l’italico connotato di mollezza, di “autocompiacimento mandolinistico”.
Partorita all’epoca dell’unità, era nata malformata la leggenda degli italiani buoni del Nord scesi ad affrancare i fratelli oppressi del Sud. Si era scontrata coi massacri, stupri e saccheggi messi in atto per rappresaglia dal Regio Esercito contro le popolazioni beneventane di Casalduni e Pontelandolfo nell’agosto 1861, in una delle prime terribili pagine della lotta al brigantaggio.
Il mito dell’italiano buono, aperto, tollerante si sviluppa dalla “liberazione del Sud” alla stagione coloniale in Africa orientale, negli ultimi decenni dell’Ottocento. Insisteva sullo stereotipo degli italiani differenti dagli altri colonizzatori, più umani, più generosi. Ma nonostante lo scudo di un ostentato buonismo, escono dagli armadi gli scheletri di crimini pesanti: 100.000 libici uccisi tra 1911 e 1932 in combattimento o in terribili campi di concentramento; tre giorni di uccisioni indiscriminate di “neri” ad Addis Abeba dopo l’attentato a Graziani del 1937; 2000 religiosi copti assassinati a Debra Libanòs, per il debole sospetto che fossero coinvolti nel complotto contro il generale; le bonifiche etniche nei Balcani; il lager di Arbe in Slovenia.
Una prova, recente, di quanto il falso mito sia radicato è lo stupore nazionale seguito al violentissimo attacco contro il contingente Italfor a Nassiriya: 19 morti. Si faceva istintivamente assegnamento sul fatto che tutti avrebbero riconosciuto al soldato italiano lo status privilegiato del “buono italiano”. Quando le fiamme e il fumo si sono levati dalla Base Maestrale, hanno suscitato, oltre al dolore, la sorpresa che i guerriglieri “avessero infranto un patto non scritto ma sottinteso”: gli italiani sono “brava gente”, non si toccano.