C’è da giurare che siamo veri: Vincenzo Calò
Una raccolta di sedici componimenti lirici più che originale quella di Vincenzo Calò, imperniata per intero sulla dicotomia tra i concetti di “esistere” ed “apparire”.
I titoli sono dilatati in prosa a formare una sorta di analisi lucida dei brani che va a collocarli, ma non a determinarli, concludendosi sempre con dei puntini di sospensione. Questi ed i punti fermi sono gli unici segni di punteggiatura che regolano il rigidissimo schema delle poesie, che si dimostrano rigorose, quasi scientifiche già a partire dall’aspetto visivo. Con essi l’autore sembra suggerirci l’impossibilità di recintare l’essere pensante, immergendoci da subito nell’impalpabilità delle sue parole.
La raccolta si articola formando un flusso continuo, inafferrabile come l’essenza dell’Essere, grazie al predominio dell’utilizzo di modi verbali indefiniti, gerundi ed infiniti, che si affollano rendendo la lettura un complesso esercizio cerebrale.
Sentimenti di rabbia, scontento, ma anche indifferenza si alternano in un lessico colloquiale che recita con distacco la pantomima burattinesca dell’uomo di oggi, sballottato passivamente in una realtà dove le osservazioni riguardo a ciò che si è e ciò che si appare diventano via via più preoccupanti.
L’ordine dei brani segue un climax di staticità in cui vediamo partecipare pochissime figure concrete: un amico, un datore di lavoro. Questi non interagiscono mai con l’Io narrante o, quando ne accennano il tentativo, ottengono una chiusura, quasi uno scatto violento da parte del poeta, che si rifugia nella sua condannata condizione priva di qualsiasi passione, in un atteggiamento acritico di un’esistenza fine a se stessa, prettamente individuale, in cui regna il non-contatto tipico della condizione dell’uomo contemporaneo.
Troviamo alcune metafore ricorrenti, come quella dei giornali, della carta stampata, a rappresentare un’attualità preconfezionata, quasi meccanica. Troviamo ancora la metafora dell’alimentazione, osservata in chiave negativa come strumento di autocontrollo dell’agire.
Entrambi questi caratteri tipici della raccolta vogliono attirare l’attenzione del lettore sul contrasto tra trasparenza e non-trasparenza dell’individuo di oggi nel suo rapportarsi in tempo reale con l’universo a lui circostante. Una trasparenza cioè solo apparente, nel flusso attuale che rende tutto fruibile in tempo reale, che in realtà ha molto spesso un effetto contrario, che va a celare la realtà, a partire dal movimento che la genera, ovvero la censura stessa dell’individuo che la genera.
Concetti apparentemente complessi da comprendere, ma che si sciolgono facilmente se si considerano altri elementi di questa poesia, come ad esempio le nostre vite nei social network, non nominati esplicitamente, ma facilmente individuabili, o le nostre scelte in campo di abbigliamento.
Per tutta la raccolta sembra che si rincorra una domanda: siamo davvero chi vogliamo apparire? Domanda alla quale siamo liberi di rispondere a seconda delle nostre personali esperienze, l’autore, con il titolo della raccolta, non vuole in alcun modo indirizzarci e ci dona solamente un piccolissimo, ma essenziale indizio: non lo so, ma so che siamo veri.
E’ una poesia complessa, così profondamente immersa nell’esistere umano da diventare impalpabile, capace di generare innumerevoli spunti di riflessione. Una poesia che si camuffa dietro un’apparente astrusità, ma che gronda del desiderio di spogliarsi delle sue apparenze per donare a tutti il suo naturale essere.
Francesca Lettieri