Navi e divinità: quando il Mediterrano divenne Mare Nostrum
In principio fu Yam o Yamm, il signore cananeo del mare. Una divinità tutt’altro che benigna. Il suo stesso nome significava “mare”, in lingua semitica, ma nell’accezione di “ribollente e selvaggio oceano primordiale”. Poi venne il fenicio Melqart e le cose per i naviganti presero ad andare meglio. Le acque non erano più un confine ambiguo e inaffidabile, ma una superficie da solcare per i trasferimenti, la pesca, i traffici. E un dio poteva propiziarli, se indotto con doni e preghiere a mostrarsi benigno. Parte dagli dei primordiali, l’ampia ma agevole incursione di Orazio Ferrara tra “Navi uomini e deità nel Mediterraneo antico”, titolo del nuovo saggio, pubblicato da Capone (128 pag. 12 euro). Un volume agile, illustrato, secondo la tradizione della casa editrice di Cavallino (Lecce): ricerche storiche di pregio, su argomenti poco indagati, a disposizione di un pubblico di non addetti ai lavori e corredate da un valido supporto iconografico, con riproduzioni di mappe e documenti inediti, oltre a foto di un archivio inesauribile.
Orazio Ferrara è nato a Pantelleria nel 1948 e opera in provincia di Salerno, dove ha diretto la Biblioteca comunale di Sarno. Per Capone si è già occupato degli ordini cavallereschi medievali, di storia dell’Ottocento e di navigazione nell’antichità. Torna sul tema della marineria delle origini, con un insolito percorso attraverso le religioni più remote, attento ai riflessi sulle attività marinare dell’epoca, poco noti, quanto meno ai lettori generalisti.
Da Yam a Melqart, dal corrusco figlio del supremo dio del cielo El, al nume fenicio benevolente, se devotamente onorato. È un piccolo passo nella storia delle divinità remote ma un progresso enorme per le civiltà dei primordi: dalla soggezione per le onde al dominio del mare, allo sfruttamento delle inesauribili risorse che poteva offrire, in termini di collegamenti e di cibo, di confronti e di scambi. Non a caso Melqart era per i marinai di Tiro “colui che estende l’orizzonte”, proteggeva gli uomini che si avventuravano in rotte temerarie, per raggiungere approdi sempre più lontani. Dalle acque nacque la bella ma capricciosa Asherah (“colei che cammina sul mare”), transitata in tutte le religioni pagane seguenti: Isthar, Astarte, Afrodite, Venere. Una figura femminile legata alla storia marinara è anche quella marmorea e alata della Nike di Samotracia, al centro del lavoro di Orazio Ferrara, dopo uno sguardo alla tecnica delle costruzioni navali assire.
Nel capitolo conclusivo, spazio all’epica battaglia nel mare delle Egadi, che nel 241 a.C. concluse la prima guerra punica, offrendo ai romani la rivincita e il Mediterraneo, solo cinque anni dopo il disastro di Trapani. Nel centro di Roma, in Largo di Torre Argentina, il tempio di Diuturna celebra la vittoria di Gaio Lutazio Catulo sulle lente e pesanti triremi cartaginesi. Pur inferiore per numero di battelli, la flotta repubblicana era risoluta e leggera. Non solo i “corvi”, gli uncini dei ponti mobili che venivano calati sullo scafo nemico abbordato, consentivano di trasformare lo scontro navale in una sorta di combattimento terrestre, ma l’agilità rendeva le manovre assimilabili a cariche di cavalleria, i remi usati “quasi come briglie”. Cinquanta navi affondate, settanta catturate, un numero imprecisato di caduti, quasi diecimila prigionieri: la vittoria fu tanto definitiva “che non si ritenne di abbattere le mura nemiche, essendo già stata distrutta Cartagine nel mare”. Dalle Egadi nasceva la potenza militare marittima di Roma. E il Mediterraneo divenne Mare Nostrum.