Intervista ad Andrea Campucci, autore de La Scampagnata
Intervista ad Andrea Campucci, autore de La Scampagnata.
Perché ha scelto il genere noir come oggetto del suo lavoro?
Beh, a dire la verità non ho mai pensato, neanche per 5 minuti, una cosa del tipo: “Adesso mi metto qui e scrivo un noir”. E neanche a lavoro ultimato mi è venuto da dire: “Perdio! Ho scritto davvero un buon noir!”. Penso che la classificazione per generi sia sempre subordinata a una preliminare scelta tematica, e che non esistano “categorie pure”, o etichette da applicare a un prodotto editoriale. Può sembrare una risposta un po’ naïf ma quello che mi interessa è piuttosto la contaminazione fra diversi stili narrativi; per intendersi c’è chi potrebbe trovare La scampagnata più vicina a un certo realismo magico o a un romanzo grottesco (chissà perché non esiste, almeno ufficialmente, un genere definito “grottesco”, quando in giro si vedono definizioni altrettanto discutibili come chick lit o lgbt). Ciò che conta non è quindi affidarsi a un genere e rispettarne pedissequamente i canoni, ma prendere spunto dalle idee e far sì che queste si innestino su una trama efficace. Che poi si possano utilizzare alcuni elementi tipici di qualche genere è un altro discorso: i miei tentativi, almeno in questo caso, erano volti a creare una specie di “assemblaggio” fra vari registri, uno dei quali, quello ironico, ho cercato di sfruttare al meglio per creare, qua e là, qualche effetto spiazzante.
Ci sono degli autori che l’hanno maggiormente ispirata?
L’impostazione iniziale de La scampagnata, e i motivi che fungono da sostegno narrativo all’intero testo potrebbero essere ricercati in un contesto di origine freudiana. Più precisamente opere come Eros e civiltà, o L’uomo a una dimensione di Marcuse sono stati, da un punto di vista strettamente teorico, i riferimenti principali, in relazione ai concetti di vita di coppia e matrimonio che ho voluto prendere in considerazione nel romanzo. L’impegno maggiore è stato quindi quello di declinare certe istanze in un plot narrativo credibile. Convinto inoltre che la letteratura non debba ricalcare la vita, mi sono sempre schierato contro un certo tipo di scrittura strettamente realista: chi è convinto di poter riprodurre il vero in ciò che scrive nasconde la malafede di voler cambiare il mondo, quando si sa che, nel bene e nel male, l’uomo non è altro che un’ibrida armonia di pianta e spettro (Nietzsche). Mi sono quindi sempre rivolto ad autori che intenzionalmente sapessero deformare la realtà mettendone in mostra i suoi lati più stranianti. Penso al Calvino della Trilogia araldica o a Tommaso Landolfi, ma anche ad Alberto Savinio e a una certa letteratura surrealista che ha come suo precursore Gogol. Un pensiero lo dedico anche alla Scapigliatura italiana di fine ottocento, pensando in particolar modo all’opera di Tarchetti. Naturalmente si tratta di una presa di posizione. Sarebbe impossibile per chiunque scrivere qualcosa di appena decente senza aver mai letto Balzac, Flaubert, Dostoevskij o Thomas Mann, tanto per fare due o tre nomi. L’elenco potrebbe continuare all’infinito…
La scrittura per lei cosa rappresenta?
Nulla di troppo emotivo. Nel senso che cerco di tenermi il più alla larga possibile da luoghi comuni quali “scrivo per liberarmi da un grosso peso” o “scrivo per sfogarmi”. Se la scrittura ha un senso, questo risiede in una disciplina, in una costante ricerca della parola giusta. Simenon aveva un talento particolare in questo senso, ma potrei citare anche Kafka. Si tratta quindi, oltre alla fatica del mot juste, anche di orientarsi nel già detto: trovare un varco in quelle che Eco chiama sceneggiature intertestuali e lì proporre un qualcosa di personale (per quanto si possa scindere il personale dal collettivo). Insomma, la scrittura non dovrebbe avere nessuna funzione catartica, se non in casi dichiaratamente clinici, ma dovrebbe mantenere la sua funzione di descrizione del mondo e gettare luce su quegli aspetti della realtà, a volte sinistri e sgradevoli, che normalmente la nostra esperienza quotidiana ci nasconde. L’immagine proustiana dello scrittore paragonato a uno specchio che riflette il mondo intorno a sé, in questo senso può essere accettabile.
C’è un messaggio che vorrebbe i suoi lettori apprendessero?
Non ho certo la pretesa di insegnare niente a nessuno. Il testo nasce come tentativo di smascherare le grandi o piccole ipocrisie di una certa cultura borghese e il suo filo condutture è il richiamo a un’umanità primitiva e irrazionale. Mi rendo conto, così dicendo, di inserirmi in un filone già di per sé abbastanza inflazionato, e proprio per questo ho optato per alcune soluzioni farsesche. Ci tengo a precisare che nonostante i protagonisti del romanzo abbiano trent’anni il mio intento non era quello di mettere a nudo le ansie o le paure di una precisa generazione. Quello che ho scritto su di loro potrebbe riguardare benissimo anche altre fasce d’età. Mi interessano le questioni fondamentali, e non problematiche estemporanee del tipo: “la crisi dei giovani di oggi”. Penso che ogni “giovanologia” sia sostanzialmente tempo perso.