Un valzer per Alfredo. Il romanzo poliziesco di Valerio Larena
Un valzer per Alfredo è un libro di Valerio Larena, pubblicato da Youcanprint, 244 pagine, euro 12. Si tratta di un romanzo poliziesco nel quale per la prima volta fa la sua apparizione Marco Noto, potente e fosco capo della mobile di Venezia, un poliziotto “in odore di strane simpatie per i no global”. È una provincia, quella in cui si muove questo primo dirigente di polizia (lui stesso figlio di un poliziotto e nipote di un famoso principe, Marco Alizzi), fortemente infiltrata dalla grossa criminalità organizzata. In questa, che è la prima inchiesta di Noto scritta dall’autore, il dirigente – che ha ormai trentacinque anni e ha perso la sua giovane moglie morta di malattia un paio di anni prima – si trova costretto a prendere in mano il lavoro della terza sezione della mobile, la Omicidi, e a seguire in prima persona il caso del rinvenimento nella laguna di Venezia del cadavere di un uomo con un piccolo tatuaggio su un polso.
Come si legge nella quarta di copertina: “Quasi due settimane prima spariva nel nulla Alfredo Bettelheim, un conosciuto violinista e liutaio veneziano a cui in passato erano stati attributi contatti con la mafia italo-americana. Anche lui aveva un tatuaggio sul polso.” Fin dall’inizio gli inquirenti andranno incontro a difficoltà di vario genere. “Il medico legale”, si legge sempre in quarta di copertina, “osserverà subito delle colorazioni improprie in un corpo rimasto per parecchi giorni in quelle particolari acque. Inoltre l’autopsia rivelerà che prima di morire annegato l’uomo ha ingerito una massiccia dose di un certo farmaco… È veramente il corpo di Alfredo Bettelheim quello appena ripescato? La figlia, una ragazza che odia i tatuaggi, non è in grado di dire niente su quel cadavere in avanzato stato di decomposizione… E cosa è successo al violinista? Perché il figlio decide di non tornare immediatamente in Italia appena appresa la notizia della scomparsa del padre?” Questi sono i cardini su cui ruota un’indagine che porterà gli uomini della Omicidi a chiedersi prima di tutto se l’uomo ripescato sia stato ucciso o se non si tratti invece di suicido o di semplice disgrazia, poi a muoversi nell’entroterra veneziano per occuparsi della scomparsa di una studentessa stuprata parecchi mesi prima dopo che le avevano dato del roipnol, e infine a raggiungere Milano, dove Noto assisterà in una clinica privata a una delle scene più tristi della sua vita.
Man mano che si procede nella lettura si capirà che Noto ha seguito altri numerosi casi in passato, non solo a Venezia ma prima di Venezia a Napoli, intorno ai trent’anni come capo dell’antidroga, e ancor prima a Roma, come semplice commissario. Questi rapporti col passato mi pare abbiano una grande importanza e aiutino a definire meglio lo spessore esistenziale di Noto. Vengono nominati personaggi che mentre leggevo mi facevano pensare (e mi è stato poi confermato) che fossero confluiti in altri romanzi che l’autore aveva poi scritto.
Un valzer per Alfredo si presenta come un giallo ben documentato sul piano formale e delle indagini di polizia, dei rapporti tra polizia e magistratura, e sul piano delle evidenze medico legali. Inoltrandosi nella lettura di una storia il cui ritmo sembra sempre di più accelerarsi verso un suo inevitabile finale, ci si accorge di trovarsi di fronte a un vero e proprio romanzo di atmosfere, con personaggi locali elusivi e a tutto tondo, che si muovono con naturalezza in una Venezia luminosa e cosmopolita, invasa da turisti e digitali.
La lingua è i ritmi sono asciutti e di una precisione quasi icastica, ma nello stesso tempo con concessioni a un certo visionarismo di intuizioni:
Gli rivenne in mente Ada De Bon, che quel giorno, a suo modo, pareva avere impugnato un suo stranissimo revolver … Aveva iniziato a premere il grilletto un po’ come al rallentatore. E secondo lui, quando il colpo alla fine sarebbe partito, non sarebbe stato esattamente a salve: quell’arma, prima di sparare, sarebbe passata di mano in mano, e forse alla fine avrebbe colpito chi per errore l’avesse puntata contro se stesso.
Gli stessi pensieri del poliziotto, che è cresciuto a Roma ma è di origine veneziana, sono filtrati dalla sua esperienza professionale e di vita in un linguaggio solo apparentemente semplice, una semplicità secondo me soltanto illusoria. Per quanto Marco Noto sia un personaggio che riflette poco su se stesso e che – nonostante la tragicità dell’uomo – è tutto teso verso l’esterno, verso una sua solarità di eroe, l’autore sembra in alcuni momenti farci entrare con più sicurezza nella sua mente, e le sue varie riflessioni sul caso sembrano giungere a conclusioni di tipo tutt’altro che matematico: in altre parole, Noto pare lasciare sempre aperta, per sé e per il lettore, una certa strada del dubbio:
Ripensò a Corte Vecchia, all’effettiva ragione, se ce n’era una, per cui quella donna aveva deciso di punto in bianco di esporsi e di non esporsi. Alla fine si trovava sempre qualcosa di non semplicemente spiegabile, di non riducibile ai minimi termini negli atteggiamenti e gesti di ognuno. E perplesso, riguardo i modi e le cose dette dalla De Bon, doveva esserlo per forza. E in primo luogo il fatto che avesse fatto passare tutto quel po’ po’ di tempo prima di dichiarare urbi et orbi quel suo moderato punto di vista: che cioè il 21 dicembre sera Bettelheim non solo non aveva preso la barca ma non aveva con sé nemmeno la solita borsa con le canne da pesca.
Una parola a parte merita l’ironia con la quale il narratore in terza persona sembra ogni tanto prendere le distanze dal personaggio principale (Noto), attraverso gli occhi del quale tutto il romanzo sembra essere condotto. Questa ironia è una sorta di sollievo per il lettore. Il segno vero della letteratura. Così come lo è il sottile umorismo che pervade tantissime pagine di questa storia: ad esempio quando il capo della Procura, che ha visto crescere Noto, e col quale oggi si trova a lavorare e a scontrarsi in un rapporto di stima e insofferenza reciproche, ne offre una descrizione fisica, e introduce il ricordo della tragica sparatoria in cui Noto per salvare un bambino restò gravemente ferito e in fin di vita per parecchi giorni:
Aveva forse quel suo sguardo eccessivamente divergente, era nato così, come suo nonno: ‘lo strabismo di Venere’, come diceva la sua segretaria … quegli occhi color nocciola che non ti si filavano neanche se ti sentiva crepare, e poi quando meno te l’aspettavi te li trovavi addosso perfettamente statici … E quando s’inquietava erano guai seri: da tipico romano ti impallinava con un sarcasmo impietoso… Anche se una volta era stato lui a essere impallinato … e per bene …
O quando Noto è colto in uno dei tanti momenti in cui interagisce coi suoi collaboratori, tra cui il sovrintendente palermitano Giuseppe Giordano. Spesso l’uso del dialetto (palermitano, veneziano, romano, barese) mi sembra che abbia lo scopo di rendere tutto più intimo e meno burocratico:
“ … u veru cunigghiu ca fa u scaittu cu ‘na fimmina picchì sapi ca sugnu a Venezia … U facissi cu mia u scaittu! … Però, si mi canusci, ricci ca ci pensa rui vuoti, picchì ci rugnu fuocu a iddu cu tutta a machina …”
Si accorse di Noto, disse all’interlocutore che non poteva parlare e richiuse.
“A chi devi dà foco, Giusè? … Che stai blaterando?”
“Chiedo scusa, dottore”, era mortificato. “Era mia sorella. Il suo padrone di casa a Palermo le parcheggia la macchina davanti al cancello, dice che la casa è sua e può farlo … È anche avvocato…”
“Vediamo di concentrarci, Giusè … Abbiamo un mare di lavoro e su quel corpo ancora non sappiamo niente …”
Come già detto si tratta di un romanzo-giallo ricco di pathos e ironia, e con tutti i crismi del genere, compreso un congegno tipico dei gialli: quando Noto dovrebbe aver capito chi è il colpevole diventa più difficile leggere nella sua mente. Se poi ci si aspetta un giallo con un finale tradizionale, cioè con l’individuazione di un colpevole, il lettore sarà assecondato, ma solo in parte, perché proprio il lettore, pur avendo tra le mani un assassino, sarà portato a interrogarsi sulla effettiva colpevolezza di un personaggio che non ammetterà mai le sue colpe. Così, anche in epoca di DNA, il lettore sarà forse spinto a rileggersi il romanzo, cercare di capire se le indagini svolte dagli uomini e donne della terza sezione – e certe conclusioni che lo stesso capo della Procura sembra trarre – abbiano veramente posto la parola fine. La stessa parola che si legge alla fine del romanzo.
Una lettura che mi ha lasciato dei fantasmi.