La Fiera della Vanità di William Makepeace Thackeray
Forma e sostanza. Gioco pericoloso e seduttivo quando i contenuti di uno sguardo irriverente salgono alla cattedra della letteratura. Disgregazione delle apparenze sociali, primato del poco rassicurante profilo umano. La Fiera della vanità di William Makepeace Thackeray, edito da Rusconi Libri e disponibile su InMondadori a soli 6,80 €, è l’oltraggio al perbenismo vittoriano, la vittoria della crudeltà sincera sulla brodaglia del sentimentalismo. Racconto senza sconti, beffardo negli esiti, proprio come la vita. Opera dove trova asilo la vista alla ricerca di autenticità.
“Chi fu il balordo che disse: “Le belle parole non condiscono le rape”? In società, metà delle rape sono servite e insaporite con quest’unica salsa”. La cruda, spietata, banale quotidianità merita davvero gli incartamenti che le offriamo? E se invece volessimo abbandonare la superficie per guardare dentro le figure, cosa scopriremmo? La Fiera della vanità, senza perdere l’attenzione alla sofisticatezza dell’ottocento inglese, traccia dei paesaggi umani avvolti da una stantia ipocrisia. Società dell’epoca spogliata delle sue vesti barocche. L’opera rilascia una sensazione d’inquietudine tanto angosciante quanto affascinate, perché ci appartiene. Come il maestro Goethe insegna “Una parola schietta è terribile, quando d’improvviso rivela ciò che il cuore da tanto si permette”.
Gli animi più sciocchi sono anche i più “virtuosi”, nell’accezione dettata dal senso comune, mentre le figure più infide rivelano qualità di straordinaria intelligenza e fascinazione. Chi amare allora? Chi l’incarnazione del bene e chi del male? Come riportare al semplicistico dualismo una complessità che sfugge ai rassicuranti codici delle apparenze? Nasce nel lettore il piacere di sentirle vive quelle parole impagliate nella carta. Non c’è atto eroico, che trova il suo apice nella tragedia, perché non c’è eroismo. La quotidianità sbarra la strada alla volontà monumentalistica dell’io. E per una volta la letteratura depone la sua bassa vocazione consolatoria per il dramma dell’assurdo.
La Fiera della vanità anticipa infatti l’annientamento dei facili ruoli valoriali. Ma non si tratta del semplice stratagemma che maschera il bene nel male o viceversa, portando la questione sull’asse dell’esistenza stessa della giustizia. Cosa chiamiamo giustizia? E le fortune a chi sorridono e perché? Infondo poi poco importa. L’uomo cerca la vanità, il suo appagamento e la felicità. Spiegazioni, logica, valori, religioni sono tutte questioni da rispolverare nella tristezza. Chi gioisce non ne chiede il perché, neppure pensa alla gioia, la vive. “Tutto è vanità, lo sappiamo, ma chi non confesserà di voler una parte di questa vanità? Vorrei sapere quale uomo sensato disprezza l’arrosto, soltanto perché è transitorio”.
C’è tuttavia un aspetto che forse rende distante, dalla nostra nozione di attualità, l’opera di William Makepeace Thackeray. Le descrizioni, come i diversi riferimenti, possono risultare a tratti lontani dalla sensibilità incapace d’attesa del XXI secolo. Anche personaggi minori sono ritratti in minuti dettagli. Dobbiamo immaginare che all’epoca la scelta rappresentava una forma di diletto cara ai lettori, che potevano rileggere in gesta e parole letterarie le tante persone reali del loro tempo. Non è pregiudicata la fruibilità dell’opera, ma non pensate di misurarvi con una letteratura commerciale, prevedibile, fatta d’azione e comodi colpi di scena. La Fiera della vanità è una delle massime espressioni della letteratura inglese, chi la scoprirà saprà anche amarla.