Intervista Alessandro Marchi autore di Fegato e Cuore
Intervista Alessandro Marchi, autore di Fegato e Cuore
Cosa l’ha ispirata nella scrittura di Fegato e Cuore?
Sicuramente un momento di sconforto. Sentivo una fase storica, parliamo di oltre tre anni fa, quando concepii l’idea, in cui notavo come le persone smaniassero – davvero, quasi fosse obbligatorio – dividersi in gruppi, sottogruppi e gruppuscoli, adducendo le differenze più assurde. Ogni motivo era valido per distinguersi, purtroppo solo in negativo. Uso il passato, ma a dire il vero mi pare che la fase di cui parlavo sia più viva che mai. Acuita, anzi, dalle difficoltà oggettive che tendono a farci chiudere nel nostro giardinetto, pronti a difenderlo col coltello fra i denti.
Fegato e cuore racconta anche un incontro tra culture, è un tema a lei caro quello della multiculturalità?
Sì, ritengo che il confronto fra persone con culture diverse sia la cosa più stimolante dal punto di vista umano e anche – potenzialmente – più prolifica per la nascita di nuove idee. Il contatto con il “diverso” ci impone di ripensarci, e ogni nuova persona è un differente modo di vedere il mondo attorno a sé. Vuol dire vivere molte più vite nella stessa vita. Non male, eh?
Quanto c’è di autobiografico nella sua opera?
Molto poco, solo alcuni piccoli dettagli. Per esempio la passione di Vincenzo per le sneakers un po’ particolari. O il commento che Steve fa sui dee jay radiofonici, dicendo che sono inutili: anch’io non amo le loro parole vacue. Sono solo piccole tracce. Non amo i così detti romanzi di formazione e anche nel mio primo libro, Parada Ópera, tentai di evitare il più possibile i tratti autobiografici. Come credo sia normale, però, ogni scrittore lascia qualcosa di sé in tutto ciò che scrive, anche involontariamente. Altrimenti sarebbe una stampante.
C’è forse un messaggio che più degli altri vorrebbe raggiungesse il suo lettore?
Pare banale, ma il messaggio è che le diversità ce le inventiamo. In fondo, e neanche troppo sotto la superficie, siamo tutti uguali. Non contano il sesso, la razza, la religione, le passioni sportive o le tendenze sessuali. Siamo uguali, punto. E abbiamo bisogno gli uni degli altri. In Fegato e Cuore c’è anche questo, almeno spero: un inno a quelle amicizie – rare, e magari anche silenziose – che però danno qualcosa ad entrambi gli amici. Nella storia, sono specialmente Steve e Vincenzo che, apparentemente agli antipodi, si trovano e, in un qualche modo, crescono e maturano insieme. In un percorso fatto di poche chiacchiere, e anche di tanti momenti di riflessione solitari, di urla e incomprensioni. Ma sentono che qualcosa possono darsi a vicenda, e quel sottile filo li unisce in tutte le pagine.
Da cosa nasce il suo bisogno di scrivere?
Non saprei da dove nasca, ma so che c’è. Prima era solo qualche frase, da appuntare dove capitava. Poi ho pensato fosse giunto il momento di organizzare quei foglietti volanti in qualcosa di organico ed è nato il primo romanzo. Di quei foglietti, a dire il vero, è restato poco nel libro stampato, ma mi hanno dato la scintilla. Poi c’ho preso veramente gusto, mi piace inventare e raccontare storie. Così mi sono sbizzarrito con i racconti brevi, e poi ho scritto Fegato e Cuore. Ora ho già in testa il terzo, ma non trovo il tempo… Comunque a me rende allegro anche solo scrivere la lista della spesa, per cui non farò una malattia, se dovessi aspettare un po’ prima di un nuovo romanzo.
Crede che ancora oggi il romanzo sia una forma letteraria adatta alla descrizione della contemporaneità?
Senz’altro! Ha la capacità di sussurrarti le cose all’orecchio, raccontartele senza volertele insegnare. L’approccio sereno con il quale ci si accosta ad un romanzo, paragonato al saggio – in cui ci si appresta a ricevere e immagazzinare informazioni, consente una lettura su più livelli e una comprensione del messaggio più profonda.