Intervista a Marco Gabrielli, autore del libro “Sophìa”
Cosa rappresenta, per lei, oggi la poesia che celebra l’amore?
È un’illusione produttiva, che consente all’amante di proiettare sull’amata le proprie aspirazioni e i propri desideri. Il poeta, in preda al furore sentimentale, trova nella donna l’appagamento dei suoi bisogni metafisici essenziali, esaltandone la bellezza fisica e spirituale. Egli, grazie al suo canto, dona all’amata la parte migliore della sua anima e della sua vita, prescindendo completamente da verità e menzogna.
– Come è nata la sua predilezione nei confronti della poesia?
Semplicemente leggendo, poi scrivendo.
– Nella sua opera poetica, “Sophìa”, lei ha esternato la profondità dei suoi sentimenti nei confronti della donna amata: quanto l’ha emozionata scrivere tali versi?
Lo scrivere in sé e per sé non genera alcuna emozione, sono le emozioni semmai che possono indurre alla composizione di poesie. La storia con la mia ragazza era al capolinea; dopo tante promesse d’amore eterno, tutto volgeva irrimediabilmente all’epilogo. Ma io avevo fatto un giuramento e, in coscienza, non potevo non mantenerlo. Dunque, di fronte a me, in quei momenti, s’è spalancato un abisso. Avevo due sole possibilità: vivere da spergiuro oppure morire. È la poesia che m’ha fornito lo spunto per venire a capo di questa contraddizione. Mettendo in versi i miei, i nostri sentimenti, ho reso possibile la loro eternizzazione, celebrando un rito sacrale nei confronti della vita trascorsa insieme. Dal momento che un futuro insieme non era più possibile, ho tentato d’irrompere nel futuro con energia, facendogli in qualche modo violenza.
– Si è ispirato a qualche poeta in particolare?
Mi sono ispirato ai grandi classici, quei poeti a cui ogni emulo deve più o meno tutto di ciò che scrive.
– Scriverà nuovamente poesie affrontando una diversa tematica?
Non lo so.