La ballata della donna ertana, recensione di un romanzo in poesia dialettale duro, triste, e molto vero
La ballata della donna ertana (ed. Mondadori, 8.40 € su Feltrinelli.it), di Mauro Corona, è un libretto piccolo, che si legge in mezz’ora o poco più, dipendentemente da quanta attenzione volete mettervi. Sì, perché il racconto, in realtà, è bilingue, scritto da una parte in italiano, e dall’altra in ertano, il dialetto della zona in cui la storia è ambientato. Erto, sul parco delle Dolomiti Friulane, patria del Vajont e della sua diga maledetta.
Ma non c’è solo questo aspetto. Corona ha scritto il racconto davvero nella forma di una ballata, in Erto in quartine di endecasillabi perfetti, almeno nella parte dialettale. La traduzione italiana, a fianco, non rende molto né l’idea né la musica dell’originale.
E’ il dialetto, con le sue durezze e dolcezze, a rendere originale e viva questa storia. La storia di una donna tra tante, che vive in questo paese di montagna tra i boschi. Una donna forte, di cui racconta le sventure che le capitano via via, non frutto di fantasia ma realtà comune in un’epoca diversa che, almeno lì, non esiste più, ma altrove sì.
La protagonista è una povera contadina sposata con un uomo brutale e ubriacone. Da quando le sono morti i genitori non ha più nessuno dalla sua parte, e il marito, maledetto ogni volta che può, fa violenza su di lei ogni volta che gli pare, mentre passa le giornate all’osteria a bere. “Maledetta la volta che l’ho sposato, non m’ha fatto una carezza neanche per sbaglio, la sera solo capace di saltarmi sopra, lasciarmi incinta e mettersi a dormire”, dice nella traduzione italiana – il dialetto è molto più crudo.
C’è solo un fattore che la fa andare comunque avanti, e sono i figli, ben nove che ha avuto a causa della brutalità del marito, che lei è costretta a mantenere praticamente da sola, lavorando i campi e attendendo che crescano, per poterla aiutare. Intanto essi crescono e non basta più quel lavoro per mantenerli, allora trova da guadagnare qualche soldo in più a tirare carri per trasportare mole da vendere in pianura.
Tuttavia ad un certo punto arriva un’altra sconfitta. Oltre al marito, improvvisamente, muoiono anche i quattro figli maggiori, per vari incidenti, chi sotto una valanga, una caduta e gli altri due in un incendio. La madre pensa di buttarsi nel torrente e morire – tempo prima aveva provato anche ad uccidere il marito, ma senza successo – però poi pensa ai restanti figli, che hanno bisogno di lei.
La speranza arriva con la costruzione della diga del Vajont, grazie a dei fondi speciali messi a disposizione per la valle. E qualche lira le arriva davvero, solo che qualche tempo più tardi, il 9 ottobre 1963, accade quella disgrazia che ha portato alla morte quasi duemila persone. E la speranza si perde per sempre, perché nell’incidente muoiono tutti gli altri figli suoi, e lei rimane completamente sola. Rimane solo la rabbia e lei, ormai vecchia, non può far altro che aspettare e pregare che la morte arrivi presto.
Al contrario degli altri romanzi di Corona, questa “ballata” ci offre un’immagine della donna fortemente diversa. Passando dalla, almeno apparente, misoginia ad un carattere forte e capace di sopportare le angherie e sfortune della vita, insieme ad un incrollabile coraggio.
La protagonista, questa donna, rappresenta una realtà diffusa, è una fra tante madri e mogli di villaggio e allo stesso tempo unica. Tormentata dalla fatica dei giorni e dalla brutalità degli uomini, alle spalle ha il lavoro nei campi o dentro casa, gli abusi di un marito violento, anni svuotati di ogni gioia tranne l’amore per i figli.
Mauro Corona canta dunque la forza e l’orgoglio di tutte le donne capaci di affrontare a testa alta le durezze del destino. Proprio per questo attinge al dialetto della sua terra, una lingua con tanto sudore e sangue all’interno. Il dialetto delle montagne è schioccante “come i rami che si spezzano sotto il peso della neve, dolce come la carezza di una madre”.
L’autore inoltre, a sua detta, dedica quest’ultima fatica a sua madre e a tutte le donne che come lei sono state zittite, picchiate, umiliate, annichilite.
Il racconto, a detta stessa di Corona, è stato scritto quasi di getto, e si nota moltissimo leggendolo. L’autore ci spiega che la prima stesura è avvenuta nel rigido inverno tra il 2006 e il 2007, poi lasciato sciogliere al sole primaverile e ripreso nell’inverno dell’anno successivo, fino a renderlo definitivo e pronto alla pubblicazione.
Un romanzo così aspro, d’altronde, non poteva essere scritto nella stagione più buia e fredda.
Da un certo punto di vista stride l’asprezza del dialetto ertese e l’armonia degli endecasillabi in cui è ritmato il romanzo, ma il genere, di stampo medievale, con cui sono state scritte tante saghe specialmente in lingua romanza, apposta esiste per raccontare una realtà rendendola più vicina possibile al lettore. Dandole inoltre il sapore di un passato remoto, che pure non è tanto lontano in termini oggettivi, ma nel ricambio della società può essere visto come tale. Forse una qualche ispirazione è arrivata dalla “Ballata del vecchio marinaio”, di Coleridge. Anche se non è presente una tale poesia e profondità, sostituita dal dialetto, ma solo un racconto di vita.
Sicuramente leggendolo in italiano, pur capendo tutte le parole invece che un terzo come in dialetto, la narrazione regge di meno, perché la lingua è uno dei pilastri di questa narrazione.
Di caratteristico nella ballata c’è anche l’assenza di una certa nostalgia dei ‘bei vecchi tempi andati’, di cui si è soliti lamentarsi. In questo libro, almeno, no. Nessuna nostalgia di questi tempi.