Il partigiano Sandro, la guerra e il romanzo come anello di congiunzione del rapporto genitori figli.
L’Uccellino di Maeterlinck (ed. Tre Lune) è un autobiografico racconto, anello di congiunzione tra l’autrice, la madre Sasha ed il padre, il partigiano Otello Bertolani.
Una sottile linea poetica percorre l’intero romanzo, in cui la scrittrice si espone, mettendo in mostra senza ritrosia le proprie emozioni; il tempo sembra sfuggirle senza che sia stato dato il giusto spazio ai suoi dubbi e, quasi a volerne redimere i vuoti e riscattare l’oblio, l’autrice mostra con spudorato candore l’appartenenza al partigiano Sandro, nome di battaglia del padre.
Fonte primaria d’informazioni di un passato divenuto evanescente è la madre Sasha, le cui reticenze narrative rischiano di far incagliare il racconto nell’arena dei rancori. Tramite l’espediente di sfogliare l’album dei ricordi, l’autrice lascia che siano le istantanee a tramare l’intreccio delle radici per accompagnare la voce di Sasha nell’evocare immagini. In una sorta di Antologia di Spoon River i personaggi timidamente si presentano nell’accompagnare il racconto alla fine di un percorso sofferto.
Con raffinata delicatezza la figlia insegue l’avaro racconto di una madre restia agli abbandoni ed ai sentimentalismi e implora alle foto di parlare e narrare un passato che a lei non molto ha palesato. L’autrice dichiara apertamente la sua sete di sapere e di conoscersi ad una madre che a tratti si fa sfuggente in questa caccia affettuosa e frenetica, come lei stessa confessa: “desideravo catturarla e farla mia, mentre mi era sempre sfuggita […], un impellente impulso onnivoro mi incalzava, che volevo sapere e capire, ricordi, storie racconti”.
Le immagini sussurrano senza violentare le descrizioni, spesso lasciandosi intendere, e la memoria trama per disegnare una storia; è la storia di un popolo mutilato dalla guerra, delle sue lettere, una storia fatta di povertà e atroci silenzi.
Così personaggi e luoghi lentamente prendono forma: Sasha, le sue scarpe rotte ed i suoi fratelli, Anka e Vlado, di cui poco si riesce a conoscere se non della loro breve esistenza, colpevole un Dio diafano che non ha voluto conceder loro il diritto di sopravvivenza; Sushak, il quartiere natale da cui evadere per raggiungere Mantova, approdo salvifico, ma distante; ed ancora il mare come linea di demarcazione di due mondi, la Jugoslavia e l’Italia, per nessuno dei quali riuscire ad acquisire il senso di appartenenza.
Come in un gioco ad intarsi, le tessere della memoria si vanno ad intrecciare con altri tasselli, fino ad invertire le rotte del racconto; accade così l’autrice assetata cerchi un’altra fonte, diverse dalla voce di Sasha, per colmare vuoti che le sue ansie non sarebbero riuscite a colmare e Sasha, da avara voce narrante diventa avida ascoltatrice inquirente e cerchi risposte ai propri quesiti finora sopiti ed inespressi.
Cambia l’io narrante e, per un gioco sottile, ci è permesso di ascoltare voce e timori del partigiano Sandro: ne vengono evocate le sensazioni, in alcuni casi, lasciando spazio a personali interpretazioni, senza che deragliano dalla veridicità. Per voce sua conosciamo l’atrocità della guerra, gli orrori, le fughe, i ritorni, le perdite, quasi che Sandro il partigiano italiano chieda riscatto da tanto silenzio.
Luglio 20, 2011
Mille grazie per la bella recensione.
Nadia Bertolani