Un filo d’olio, un’autobiografia più che vissuta di Simonetta Agnello Hornby
“Un filo d’olio” (Sellerio, a 9.80 € da Feltrinelli), di Simonetta Agnello Hornby, scrittrice siciliana che ora vive quasi tutto l’anno a Londra lavorando come avvocato, è un romanzo autobiografico della sua infanzia.
È un viaggio all’interno dei suoi ricordi di quand’era bambina e ragazzina, costruendo la storia in una cornice che è la Sicilia anni Cinquanta, in una famiglia appartenente all’aristocrazia terriera.
Molti dei romanzi della Hornby sono ambientati nell’isola attraverso due secoli, ma questa volta l’autrice ha deciso di essere la stessa protagonista del racconto.
Il luogo in cui esso è ambientato si chiama Mosè, un nome biblico derivante dal primo proprietario dell’antica masseria in cui la piccola Simonetta trascorre le vacanze estive, un edificio che ha resistito alle guerre ed a pochi passi dai templi dorici di Akragas.
La scrittrice racconta il vissuto di quelle estati, tra i riti del viaggio e quelli del cibo, tra l’arrivo e i giochi con i cugini oppure le visite degli ospiti, camminare nelle aie e nei campi assolati, ombreggiati solo da ulivi, oppure riposare nelle stanze fresche della masseria. Il tutto che si ripete di giorno in giorno, un tempo che passa lento come nella migliore tradizione letteraria siciliana: tutto si muove ma nulla cambia – o quasi.
Allo stesso modo l’autrice riprende la stessa tradizione riguardo allo stile, utilizzando un lessico familiare, raccontando le mille storie dei parenti, dei contadini, della servitù da cui trae le immagini che rendono questo romanzo vivido, con immagini chiare ,definite, facili da immaginare.
Oltre alle ricette culinarie rese con dettaglio, preparate con la sorella Chiara, che fanno apparire mentre si legge gli odori delle spezie e della campagna siciliana. Sono ventotto, e sono descritte con dovizia di particolari, accompagnando l’estate in cucina nel cambiare di stagione da maggio a settembre.
Per la scrittrice deve essere stato quasi un divertimento, sicuramente molto piacevole, rivivere e raccontare questi istanti di vita familiare, più che inventare una storia nuova. E questo viene trasmesso attraverso la scorrevolezza della scrittura. Non dovendo inventare nulla, è chiaro che i dettagli si fanno molto realistici, e la bravura della Hornby permette di portare questo risultato al massimo.
Anche grazie alla naturalezza del linguaggio parlato dalle persone comuni, con molti termini del popolo, che è la lingua naturale della scrittrice. Infatti l’autrice non fa una traduzione delle parole dialettali, ma le lascia nel suo suono originale proprio per mantenere uno stile autentico e fragrante nella scrittura e, quindi nella lettura.
Anche se è un racconto incentrato sul passato, non è nostalgico. I particolari che ci dà, i momenti che ci fa rivivere compongono un quadro dettagliato, come se fossimo lì in quel momento, per cui in realtà il passato diventa il presente, da vivere al momento della lettura, e non un insieme di momenti già vissuti e che non torneranno.
Forse l’unica nostalgia, se così si può chiamare, è quella rappresentata da quella classe isolana sulla via del tramonto, l’aristocrazia siciliana abituata a molti pregi e lussi, tra cui la servitù, che da lì a poco scompariranno, insieme ad una parte di cultura contadina.
Ma nel romanzo non c’è solo un racconto descrittivo delle giornate di Simonetta. Si tratta del ritratto di un’epoca che non c’è più, che ci dice non solo usi e costumi della società e gioventù dell’epoca, ma anche com’erano formate le persone tramite gli insegnamenti, la famiglia che abbandona gradualmente la nobiltà e come stava morendo, qualche secolo dopo che il resto d’Italia, il feudalesimo per far posto al boom economico che stava per entrare prepotentemente nella vita quotidiana. Fino a capovolgere gli antichi rapporti e le vecchie abitudini.
Con tutto ciò il romanzo che viene in mente è il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, che affronta una tematica simile anche se con riferimenti –ed epoca – differenti. Ma questo è solo perché i temi di quegli anni non erano differenti, ma gli stessi.
Ed ecco dunque che, addirittura autobiograficamente, scopriamo che la nobità siciliana mangiava come mangiava il popolo, che viveva l’arrivo delle nuove tecnologie, come il frigorifero o la televisione, la radio o la cucina a gas, alla stregua dei paesani, ma anche che i figli facevano il bagno nella stessa acqua, così come era uso nella gente comune, così come veniva visto ‘Sanremo’ oppure ‘Lascia e Raddoppia’. Per arrivare alla conclusione che le differenze tra il popolo e l’aristocrazia, alla fine, non era così grande come si potesse immaginare.
Ma alla Hornby non piace parlare di sicilianità. “Lo trovo dannoso”, afferma. “Preferisco parlare di insularità semmai, che è una cosa bella e ci accomuna a tanti altri popoli, inglesi compresi. È la consapevolezza dei propri limiti, di chi per andare all’estero deve salire su una nave. Quando vado a Trinidad mi sento un po’ come a Palermo”.