La morte spiegata ai miei figli
Attenzione a non farsi ingannare dal titolo dell’opera, l’autore Roberto Fantini, docente di Filosofia e Storia, intende scrivere, in questo saggio, un inno alla vita e alla bellezza del vivere. Per fare ciò utilizza un argomento scomodo che tocca il limite estremo della vita (e forse il suo punto più intimo e essenziale), quello che egli stesso definisce il mistero dei misteri: la morte.
Perché la morte? Cosa ci attende dopo? Rivolgendosi ai suoi figli (proprio a loro dedica riflessioni e insegnamenti) Fantini si pone degli interrogativi a cui risponde passando dalla filosofia alla letteratura esoterica; dalle teologia alla testimonianze mediche di premorte. E poi l’attualità: la morte cerebrale e il trapianto di organi, con lo sguardo critico, chiaro e consapevole.
La morte è vissuta con la serenità di chi aspetta che un cerchio naturale si chiuda, come per gli animali e per la natura. La vita è da vivere senza il terrore di questa fine, ma soprattutto (altro insegnamento di immensa valenza etica che leggiamo tra le pagine del libro) non aspettiamo di morire, o di stare per morire, per capire il valore e la bellezza dell’amarsi!
Perchè ha deciso di scrivere un libro sul tema della morte?
Nella mia vita di insegnante di filosofia e storia, nonché di attivista-formatore nel campo dell’educazione ai diritti umani, mi sono trovato ( e continuo a trovarmi ) a fare innumerevoli lezioni, conferenze, lunghe conversazioni, dibattiti, ecc. In tanti anni, ho parlato di tante cose importanti a tantissime persone, studenti e docenti, giovani e adulti. Qualcosa di mio avrò lasciato, credo, in molti di loro. In qualcosa, spero, avrò aiutato molti a vivere meglio.
Ad un certo punto, però, mi sono chiesto: e i miei figli, cioè le persone a cui più sono legato e a cui maggiormente dovrei dedicare le mie energie morali e intellettuali? Ho avvertito, cioè, il timore che a loro sarebbero potute restare soltanto le povere chiacchiere che si fanno a tavola: parole distratte, spesso ascoltate appena, quasi sempre subito dimenticate.
E, allora, ho pensato che avrei fatto bene a scrivere un libro in cui dire tutte le cose per me più importanti. Quelle, soprattutto, che desidero che i miei figli sappiano di me e che ritengo utili per poter affrontare la vita nel migliore dei modi. E il tema della morte mi è sembrato quello più capace di permettermi di tirar fuori il meglio dei miei studi, dei miei insegnamenti e del mio pensiero. La morte, infatti, ha lo straordinario potere di indurci a fare chiarezza dentro di noi con rara onestà, a cercare di capire chi siamo e in quale direzione desideriamo procedere.
Leggendo il saggio, dalle numerose citazioni e dai riferimenti bibliografici, si evince che durante i suoi studi ha incontrato molti pensatori che hanno trattato il tema della morte: qual è secondo lei l’autore o quali sono gli autori a cui è più legato e che consiglierebbe di leggere a chi volesse avvicinarsi all’argomento?
Sicuramente, l’incontro con la teosofia è stato, per me, di fondamentale importanza. Consiglierei soprattutto le opere di H.P.Blavatsky (una sbalorditiva miniera di conoscenze esoteriche!): prima fra tutte “La Chiave della Teosofia”. Consiglierei anche “L’Oceano della Teosofia”, di W.Q.Judge, il suo migliore collaboratore-discepolo.
Una lettura che raccomando con particolare calore è quella delle bellissime “Lettere a Lucilio” di Seneca.
Ma, più ancora delle teorie e delle meditazioni, ha suscitato in me una profonda impressione il modo in cui tre grandi personaggi hanno saputo rapportarsi alla morte, alla loro morte: Socrate, Gesù e Giordano Bruno.
Di Socrate mi hanno colpito la serenità abissale con cui affronta il suo destino, la saldezza morale, la capacità di continuare a sorridere, a scherzare, ad interrogarsi fino ad un passo dalla morte, la sua pienezza interiore che gli impedisce qualsiasi timore o cedimento.
Di Gesù, inteso in una prospettiva assolutamente a-confessionale e anti-teologica, mi hanno colpito, per dirla con De André, la “pietà che non cede al rancore”, la sua capacità di “perdonare, con l’ultima voce, chi lo uccide, fra le braccia di una croce”.
La sua morte riesce magnificamente ad esprimere, a livello simbolico, la vittoria dell’amore incondizionato e disinteressato sull’odio, sulla violenza, sul desiderio di vendetta.
Di Bruno, mi hanno colpito l’incrollabile capacità di rimanere se stesso, di non chinare il capo, di non arrendersi, di combattere la sua battaglia filosofica senza compromessi, senza paure, senza calcoli utilitaristici, con immensa fierezza.
E ci sono molte cose che accomunano questi tre maestri: sono “martiri” della Verità uccisi dalla cosiddetta “giustizia” (vittime innocenti di quella pratica esecrabile ed immonda che è la pena di morte); sono tre grandi anime trattate come criminali scomodi e indesiderati; tutti e tre avrebbero potuto, con qualche piccolo compromesso, sfuggire alla condanna; tutti e tre affrontano la morte con infinita dignità, dicendoci che non è tanto importante vivere o morire, bensì essere nella luce.
Qual è, a suo parere, il miglior punto di vista grazie al quale è possibile parlare in modo critico della morte? Quello filosofico, quello religioso, quello poetico letterario o quello medico? O se non è possibile privilegiarne uno, in che rapporto li metterebbe tra loro?
Direi che mi piacciono tutti i “punti di vista” che sono in grado di condurci ad essere più in sintonia con la Vita, a saperla scorgere, apprezzare e amare nelle sue infinite forme, e che sono in grado di suscitare in noi gioia di vivere e volontà di dare a chi meno ha e di sostenere i più deboli.
Ma mi piacciono, poi, tutti i punti di vista che generano serenità d’animo, che fugano le paure e che alimentano forme di speranza ragionata verso quello che ci attende.
In realtà, io sostengo che, pur restando innegabilmente la morte il “mistero dei misteri”, utilizzando in maniera libera da pregiudizi ideologici di qualsiasi segno le conoscenze di cui disponiamo in sede filosofica, in sede religiosa e in sede scientifica, sia possibile avanzare ipotesi sensatamente argomentate, degne di essere esaminate e discusse da qualsiasi punto di vista si parta. Cosa questa che, purtroppo, manca tristemente alla cultura contemporanea, che tende a chiudere ogni discorso sull’oltre prima ancora di cominciarlo, rifugiandosi o nel fideismo religioso o in quello materialistico.
Comunque, la prospettiva per me più attraente è forse quella espressa da Schopenhauer, quando dice che morire sarà come ridestarsi da un sogno (a volte piuttosto infelice), aprendosi ad una nuova vita immensamente più ricca e più libera.
Lei sostiene che la “morte cerebrale” sia un inganno della medicina, un’invenzione che ha avuto lo scopo di favorire i trapianti di organi da persone che non possono essere del tutto considerate morte. In che modo, quindi, può essere lecita questa pratica? E quando si può parlare di “morte totale” di una persona?
La pratica dei trapianti ha in sé qualcosa di fortemente aberrante, e sono certo che le generazioni future la guarderanno con orrore e con stupore, stentando a credere che la medicina del nostro tempo abbia potuto seguire, in maniera quasi del tutto incontrastata, una strada così insensata, irrazionale e immorale. Si tratta, a guardarla bene, senza pregiudizi, di una vera e propria forma di “cannibalismo”, accettata con generale acritica passività, in quanto ipocritamente e ingannevolmente esaltata, sia a livello mediatico che a livello politico, come espressione della cosiddetta “cultura del dono e della solidarietà”.
Ma, mi domando, se il “morto cerebrale” fosse davvero morto, come potrebbe “donarsi”? Se il suo corpo fosse davvero morto (ovvero materia organica in via di decomposizione), cosa potrebbe esserci di moralmente encomiabile nel consentire ad altri di servirsene? E, invece, nel caso il “morto cerebrale” fosse ritenuto un probabile moribondo (come dovrebbe concludere qualsiasi persona intellettualmente onesta e correttamente informata), come potrebbero altri soggetti (i familiari) sentirsi in diritto di “donare” un corpo non loro, che appartiene, a tutti gli effetti, a qualcun altro (o, addirittura, che è qualcun altro)?
E quali genitori, inoltre, dopo aver ceduto alla propaganda imperante (che non ammette alcun dissenso) e alle pressioni dei medici trapiantisti, sarebbero in grado di sostenere la vista dei poveri resti smembrati del proprio figlio? E, soprattutto, quali genitori potrebbero mai assistere alle operazioni di espianto degli organi dal corpo del proprio figliolo (intubato, anestetizzato e respirante!), senza avere la chiara e inequivocabile sensazione di trovarsi di fronte ad un atto di “macellazione” di un corpo che, seppur apparentemente privo di coscienza, è pur sempre, indiscutibilmente, un organismo biologicamente vivo? Chi mai potrebbe sopportare un simile spettacolo? E come potrebbero continuare a vivere genitori che si trovassero (come è capitato ad alcuni) a pentirsi del loro assenso? Come potrebbero sopportare il pensiero di aver condannato il proprio figlio ad una atroce “vivisezione”, invece di proteggerlo fino al suo ultimo respiro, tentando fino all’ultimo di strapparlo alla morte ?
Con l’ ”invenzione” della “morte cerebrale” e della politica del trapianto, ci troviamo di fronte al trionfo del peggiore materialismo meccanicistico. Ritengo che i credenti di tutte le religioni e tutti coloro che credono nei diritti umani dovrebbero coalizzarsi contro queste vergognose (e ancora non comprese) “rivoluzioni culturali”. Ma, per il momento, almeno qui in Italia, ad eccezione dell’encomiabile attività di contro-informazione portata avanti dalla Lega Nazionale contro la predazione di organi e la morte a cuore battente (a cui consiglio di iscriversi) e di qualche isolata voce di studioso, ben poco si sta muovendo.