La lettera che ogni docente attende di leggere, ma che non ha avuto il coraggio di scrivere
Fra vita, letteratura, professione docente, la Lettera da una professoressa di Norma Stramucci (Manni editore, 2009) è una dichiarazione d’amore e di dolore nei confronti della Scuola e della condizione in cui versano docenti, studenti, famiglie da ormai un lungo torno d’anni, in Italia. Tanto evidente il richiamo alla Lettera a una professoressa, (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967), che, oltre 40 anni or sono, sconcertò e lasciò perplessa l’opinione pubblica italiana, non ancora avvezza alle proteste postsessantottine, che non metterebbe conto riproporla, se non per certificarne la distanza che l’autrice vuole decisamente prendere da quegli anni, ponendosi, oggi, dalla parte opposta e desiderando tanto duramente quanto dolcemente rivolgersi, non agli studenti di allora, ma a quelli di ora. Se Don Lorenzo Milani (1923-1967), sacerdote ed educatore, fondatore della scuola di Sant’Andrea di Barbiana, si rivolgeva a docenti che non riuscivano a comprendere la situazione di disagio di studenti che si recavano come privatisti, per sostenere un esame, e invece di essere accolti e di essere valutati, vanivano brutalmente e non senza umiliazioni bocciati, Norma Stramucci si rivolge ai ‘nostri’ studenti contemporanei cui tutto è sempre dovuto e subito, coadiuvati da genitori, che ben lungi dal desiderare il bene dei propri figli, si trasformano ad ogni colloquio, quando vi partecipano, con i docenti in sindacalisti-insindacabili di quegli adolescenti smarriti e soli. E quei nostri studenti descrive e di loro parla, ma sempre anche con loro, pagina dopo pagina, facendo drammaticamente emergere: solitudine, degrado, paura, distruzione e disperazione, ben camuffate da impudenza, arroganza, indisponenza e bullismo.
La lettera di Norma Stramucci, inizia con un “Caro ragazzo…”, che potrebbe essere letto come un “Cari ragazzi…”, perché la scelta dell’interlocutore è del tutto arbitraria e volutamente e liberamente aperta, quel ragazzo, quei ragazzi non sono riconoscibili in una scuola determinata, in un suburbio o nella zona periferica di in una città di provincia, no! Quel ragazzo, o quei ragazzi sono, oggi, nelle ‘nostre’ classi, nelle ‘nostre’scuole, equamente distribuiti in tutto il territorio nazionale. Dalla lettura attenta del volume emerge evidente e luminosa una donna che ama il proprio lavoro, anche quando non è facile come sembra, e che a questo lavoro dedica la propria vita, la parte migliore della propria vita e delle proprie energie, emerge una donna che lotta consapevolmente, spesso in solitudine, contro stereotipi e messaggi distruttivi e negativi, brutalmente e totalmente annichilenti giovani menti e ancor più giovani corpi. «Il primo confine da attraversare per te è quello che ti separa dal ragazzo che saresti» (p. 44), indica Norma al proprio studente, che saresti se non ci fossero tanti, troppi che ti desiderano differente da te stesso: macchina disanimata, preda di pubblicità e modelli di consumo, sempre insoddisfatto e dunque infelice. Così ‘ti’ desidera un sistema che ti stritolerà in spire sempre più strette, fino a vederti schiantato contro un muro all’alba, di ritorno da una discoteca, o ‘strafatto’ di ‘roba varia’ con amici, che tanto amici non sono, se ti consentono di ‘sballarti’. E poi la prof.ssa allegorizza: «ti racconto la storia di Ulisse, che non si perde viaggiando, poiché ad Itaca ritorna» (p. 44), e aggiungiamo noi: sano e salvo, proprio perché non si sballa e non si ‘fa’ o ‘cala’. La storia di Ulisse è la storia di chi parte e di chi torna, se stesso e sempre differente.
Ma il libro oltre che un manuale di educazione dell’anima giovane, o “anima bella” come Roberto Benigni nel suo Pinocchio cinematografico chiamava Lucignolo, può essere letto come un testo che educando il cuore apre l’anima del buon cittadino nell’epoca presente: epoca di differenze, di allontanamenti, di paure.
Sorrisi, lacrime, sospiri, riflessioni si alternano nella lettura agra e al contempo disarmante della vita quotidiana di questa professoressa, di di questa amica, questa donna.
In conclusione del volume troviamo 4 pagine di dediche: agli studenti differenti dal destinatario della lettera, agli insegnanti, agli studenti simili al destinatario della lettera (che sono i più), ai genitori, infine ai ragazzi di Barbiana, «che avete lottato per permettere al “mio” studente di essere da me, dalla sua professoressa, amato» (p. 92).
Avevamo davvero bisogno di questa lettera! Tutti ne avevamo bisogno: docenti, studenti, genitori, uomini e donne del nostro tempo, che dovrebbero sentirsi responsabili della formazione e dell’educazione dei giovani, anche se non sono i loro figli, anche se non hanno figli; e, forse più degli altri, ne avevano bisogno quei ministri, che si avvicendano a ‘riformare’ la scuola, partendo dalle carte, dai tabulati, dai documenti, da docenti, studenti, genitori tutti rigorosamente e perfettamente virtuali, mai da quelli reali, che sono davvero molto differenti dalle previsioni e dalle attuazioni delle circolari ministeriali. Se, come afferma Gόmez Dávila «ogni verità è un rischio che ci pare valga la pena correre», allora questo libro è ben più di un rischio, è un abisso in cui ci pare valga la pena inoltrarci, per la quantità di verità sconvolgenti che rivela.
È, probabilmente, il libro che ogni docente, sensibile e intelligente, avrebbe voluto scrivere, ma che non ha osato, ed è il libro che alcun genitore, per rimanere nella propria olimpica condizione oppiacea, vorrebbe leggere; è, comunque, il libro che un Ministro della Pubblica Istruzione cestinerebbe immediatamente, perché troppo problematico per la coscienza di un ministro. Ecco, perché è il libro che dobbiamo leggere, e rileggere, e donare, per farlo leggere, perché insegna a credere, qualunque essa sia e a qualsivoglia età, nella missione della vita.
Angelo Fàvaro
Gennaio 16, 2010
Ricordo i Decreti Delegati, fine anni ’70, che introducevano i genitori nel consiglio di classe, un tentativo per coinvolgere la famiglia nel processo didattico. Cosa positiva in sé, chi lo metterebbe in dubbio, ma fu l’inizio di un degrado. E gli effetti sono evidenti (anche se di certo non fu il solo elemento di sfacelo). Non demonizzo i genitori, ma il fatto è che si dovrebbe lasciare “ad ognuno il suo”, e ognuno dovrebbe fare il “suo” con competenza, famiglia e scuola, e aggiungerei Stato (che troppo spesso ha gettato in aula professori incompetenti).
Mi chiedo quale sarà il destino della Scuola, parlo volutamente di destino e non di futuro. A parer mio il destino della Scuola Pubblica sarà quello di un servizio per i poveri, da intendersi extracomunitari e italiani sfigati. Gli altri si pagheranno scuole private, lezioni private che danno anche una continuità didattica, scuole di alta formazione, ecc.
Forse mi sbaglio, forse sono troppo pessimista?