L’Azzurro dei giorni scuri, romanzo in forma di diario
Più che definire l’Azzurro dei giorni scuri di Maria Grazia Maiorino, peQuod, 2006, un diario, -e la definizione sarebbe accettabile, vista la cronologia assolutamente convenzionale-, è più opportuno parlare di romanzo autobiografico. Entrambe le forme scavano nell’io alla ricerca della verità, attraverso un sentiero che tenta ininterrottamente di comprendere il cambiamento che il tempo, -e le vicende che del tempo si appropriano-, produce all’interno della propria interiorità. Non basta però la presenza di date per definire l’opera della Maiorino diario. Si tratta di un romanzo. E infatti, come in ogni romanzo, l’autrice seleziona i temi, li approfondisce fino all’estremo, e accenna appena ad altri accadimenti che sarebbero stati vitali, in un diario. Non è dunque il tentativo di raccontare “un giorno peggiore dell’altro”, come direbbe Alfieri, a essere alla base del libro, non il percorrere giornate, una dopo l’altra, per le quali non sia possibile ricostruire una ben determinata fabula. Lo è invece il progetto indiscutibile di un netto disegno narrativo.
Non si vuole certamente criticare il diario come forma anche letteraria, ma solo sottolineare che l’Azzurro dei giorni scuri va letto come un romanzo; e infatti non lascia, come spesso accade con le letture diaristiche, alcun senso di incompiutezza.
La trama, nella sua linearità, ha protagonisti principali e secondari, e netta è la funzione dell’antagonista. Il nemico che incombe è l’Alzhaimer, la malattia che a 75 anni ha colpito Chiara, la madre della donna, (l’io narrante), Tiziana, attraverso la quale Maria Grazia Maiorino rivive e fa vivere le drammatiche sofferenze che effettivamente hanno segnato la propria esistenza. Le tappe che la scrittura percorre sono scandite dalle varie fasi che la malattia impone: da una parziale autosufficienza all’approdo alla dimenticanza del sé. L’inconsapevolezza della madre (“io la sera penso alla luce non mi ricordavo se ero una persona mi pare difficile fare la persona” p.121) induce Tiziana ad ancorare lei e se stessa, al passato, attraverso i ricordi ripercorsi spesso con l’ausilio di vecchie fotografie che attestano, in certo qual modo, l’identità di entrambe.
Una bella prova di amore non tanto o perlomeno non solo, quella che lega la figlia alla madre, che comporta dolore, rabbia, impotenza, quanto l’altra, quella che stimola in Tiziana gratitudine: amore dunque per persone magari neppure conosciute, ma che lasciano il segno sull’aspetto di Chiara (“Non so quali mani oggi le abbiano acconciato i capelli, ma sono grata a quelle mani.” p.141), o in oggetti della sua camera, una cartolina ad esempio, inviata da una studentessa che per una settimana ha praticato il Volontariato presso l’Istituto dove Chiara è ricoverata.
Tanto brevemente il contenuto si può riassumere, quanto assolutamente inefficaci e insufficienti sono le parole per dare il senso di un’opera squisita, delicata, specchio della sensibilità sofferta dell’autrice.
Norma Stramucci