Quaderni di Serafino Gubbio operatore | Luigi Pirandello
Pirandello vive e soffre il passaggio traumatico di un’epoca che muore e si reincarna nell’orrorosa società contemporanea.
Proprio perché vive in prima persona questo travaglio, Luigi Pirandello risulta essere il più idoneo a rappresentare la sofferenza dei corpi, materia buttata sulle tavole del palcoscenico per raccontare un dolore impronunciabile, un dolore che a volte si manifesta con il silenzio, a volte con lo stupore, a volte con l’immobilità del sentimento e l’impossibilità di esprimere la profonda sofferenza.
La peculiare collocazione dell’opera Quaderni di Serafino Gubbio operatore nell’ambito della produzione pirandelliana fa sì che questo romanzo si ponga come una cerniera, uno snodo di percorsi sperimentali, un crocevia in cui gli impulsi tematici si intrecciano e precipitano, in strutture formali extra-vaganti, alla ricerca di nuove funzioni comunicative.
Serafino Gubbio è un operatore, “la mano che gira la manovella” presso la Kosmograph di Roma; non ha una parte attiva in questa casa cinematografica, ma deve limitarsi ad alimentare i movimenti di una macchina che ormai sembra avere vita propria, tanto l’uomo si è alienato per essa.
Pirandello acquista la grande consapevolezza dell’intreccio tra crisi dell’io narrante e crisi dei generi narrativi.
Ci troviamo in una zona limite, nel guado di una mutazione genetica della scrittura.
Il romanzo si colora di silenzio, la voce si arricchisce del nulla, del grido assente a se stesso.
La maschera si frantuma in mille perché, in mille dubbi e si ritrae sconfitta.
Troppo evidente, troppo appariscente e sensuale, non può più risarcire, riempire, offuscare, occultare il dolore dell’io che si lacera dall’interno. Pirandello ci lascia una fiera e lucida testimonianza della sofferenza, attraverso l’infrangersi di personaggi contro la quarta parete, personaggi, che come funamboli senza rete sulla corda del dolore, ansimano, anelano, vivono sospesi, su una soglia indefinibile, che non riesce a delineare bene i profili.
Si avvertono ed aleggiano nell’aria soltanto sensazioni, tremori, pulsioni, che la letteratura non riesce a rappresentare.
Tra le pagine di un libro, il lettore inciampa in parole, in registri di scrittura, in pensieri, attraverso un percorso narrativo che lo condurrà ad un’interpretazione soggettiva del testo, lasciandogli tra le dita castelli di sabbia.
La messa in scena teatrale sarà in grado di trasformare un pensiero in vuoto, di renderlo materia che sgorga dietro una maschera.
Pirandello mette in scena quel sentimento profondo di sofferenza, che funge da filo conduttore della sua opera e della sua vita e che lo trascina nella spasmodica ricerca della dimensione del corpo, della dimensione dell’attore che viene maciullato, martoriato nella modernità, nella tecnologia.
L’opera pirandelliana è un dramma che non conclude e rimane umoristicamente sulla soglia, frantuma e pluralizza il soggetto sulla scia di un dolore inesplicabile.
Attraverso i suoi personaggi e attraverso il dramma di Serafino, Pirandello rappresenta il nulla che si mette in scena, l’impassibilità, il silenzio, la non-vita.
Proprio l’afasia dei personaggi pirandelliani, caratterizza, rende unica e magicamente irripetibile l’opera del grande Maestro.
Serafino Gubbio esprime la sofferenza della società contemporanea, la sofferenza del corpo e dell’anima che si trovano smarriti, cercano la loro strada, per pochi istanti fuggevoli riescono a trovarla sulle tavole del palcoscenico, ma proprio nel momento in cui il tormento dell’anima viene rappresentato, la messa in scena lascia un vuoto incolmabile.
Serafino diviene ambasciatore di Pirandello nell’atto in cui esplode l’epifania del silenzio.
Con l’opera che non conclude, Serafino Gubbio rappresenta il prototipo di ciò che è stato definito il raisonneur, il fil rouge dell’opera pirandelliana, che si manifesta lungo un tortuoso sentiero che parte da Mattia, attraversa Vitangelo, si infrange nel filosofo di All’Uscita, inciampa in Laudisi e guizza via in Cotrone che è il dimesso, l’emblema terminale dell’incorporeità vissuta nell’atto creativo, addirittura in fuga dall’artigianato della rappresentazione, dai fantasmi che animano la scena.