Robledo | Daniele Zito. Il lavorare per il lavoro
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
Uno degli incipit più noti, o almeno dovrebbe esserlo, per noi italiani.
Non introduce a un romanzo o a una raccolta di novelle o poesie, ma dà le basi di ciò che è la suprema sintesi della nostra Italia: il lavoro è un valore e lo sono anche coloro che lo esercitano.
Ancor di più il lavoro deve essere sicuro, non solo nella garanzia del posto di lavoro (inteso come contratto), ma nel esercitarlo nel pieno diritto della dignità.
Questa affermazione è una dei molti richiami da cui prende spunto e idea Robledo, nuovo romanzo di Daniele Zito edito da Fazi (2017).
La storia in bilico tra reale e immaginato, tra reportage e romanzo, tra poesia e pensiero riunisce, crea e dà corpo a contingenze assolutamente credibili e attuali collegando agilmente e abilmente tre aspetti che dovrebbero rendere l’uomo libero: il lavoro, il suo vivere e la dignità che dalla mediazione dei due consegue.
La Storia…
Protagonista, narratore e allo stesso tempo vittima è Michele Robledo, giornalista quarantenne con alle spalle un matrimonio fallito e una relazione poco fortunata con Veronica, la sua giovane nuova compagna da cui si è già separato; Robledo è soprattutto padre di Samuele, al quale vorrebbe dedicare molte più attenzioni.
Non è alto, ricorda vagamente Danny De Vito e vive un momento sospeso tra età abbondantemente adulta, occupazione non stabile, vita sentimentale in bilico tra quello che stato e ciò che il presente gli riserva (una nuova separazione) nel dubbio di un futuro, dove non è chiaramente identificabile una qualche via da percorrere.
Inappetente alla vita e alla ricerca di un “incipit”, di una notizia, di uno scoop che faccia da stimolo e da trampolino di lancio per un pezzo giornalistico che lo possa rilanciare, incrocia il “lavoratore” Salvo che tra sfogo e disperazione gli racconta la sua storia tra sofferenze, stipendi miseri o assenti, per i quali l’unica via di fuga segnata ed inevitabile sembra essere quella di una morte camuffata da suicidio.
Nulla di strano in apparenza: ma Salvo, come Livio, Roberta, Ciro e molti altri lavoratori che Robledo incontra in bar e tavole calde appartate e sparse per la città, sono parte integrante di LPL, noti ai più come Ghost Worker, che in italiano si declina come Lavoratori per il Lavoro: uomini e donne, più o meno adulti, alle prime “armi nel lavoro” o lavoratori già “affermati” che, rigettati dal mondo del produttivo per vari motivi (esuberi, precarietà, assenza di occupazione) iniziano a lavorare per il gusto di farlo, anche senza stipendio.
Riabilitando il tristemente noto “Arbeit macht frei”, lavorano “a gratis”, quando e dove capita, per il solo scopo di sentirsi utili a se stessi e agli altri, dando una ragione all’altrimenti inutile alzarsi mattutino.
Michele Robledo, prima distrattamente poi sempre con più convinzione si appassiona alle loro storie che da iniziale “racconto – sfogo – confidenza” di un Ghost worker che svolge lavori defilati, dove è sufficiente indossare una pettorina lasciata distrattamente in un angolo per diventare “dipendente-lavoratore”, divengono pura descrizione di un vero sotto bosco lavorativo fatto di violenze reali, trame dolorose di lavoro “non noto” che lentamente diviene oppio necessario per vivere e che , dopo un iniziale apparente benessere, rende inevitabilmente schiavi.
Parte di questi colloqui e ricerche Robledo divengono il “suo” reportage del riscatto” riscuotendo un discreto successo e suscitando curiosità tanto da fargli credere che forse, quella, sia la sua “possibile” redenzione e ripartenza.
Dopo un primo facile entusiasmo, Robledo percepisce che il “successo e la curiosità” sui LPL non nasce dalla volontà di condannare per risolvere il problema, ma solo dalla notizia stessa, che di per sé fa clamore e rischia di richiamare rinnovati movimenti eversivi. Per cui decide di fare un passo indietro.
È divenuto, infatti, non solo “il narratore dei fatti”, ma il protagonista o forse “capo” (vero o presunto) degli stessi.
Egli stesso è , infatti, un Ghost Worker, schiavo della stessa vita su cui sta investigando e che si è rivelata falsa e supponente verso coloro che essa stessa espelle come “esuberi” apparentemente inutili; una vita che è stata “compresa male”, come accade per una barzelletta di cui comprendiamo il significato solo alla fine, quando ormai è troppo tardi.
La riflessione…
Storia particolare quella di Daniele Zito che ha la capacità di non mostrarsi subito come “inventata” per tema e contesto.
In un equilibrio costante che alterna poeticità, romanzo, reportage giornalistico e diario personale, il lettore attraversa gli altalenanti momenti della narrazione identificandosi, riflettendo, alle volte rilasciando un leggero sorriso nei confronti di quella che a tutti gli effetti potrebbe essere “davvero” una storia vera.
In una non realtà che ha i tratti dell’autentico, si riconoscono le mille categorie di disoccupati e di precari che popolano la nostra Italia, senza più certezze, fatta di risicate speranze e flebili illusioni.
Il vero protagonista indiscusso è il LAVORO che Daniele Zito – attraverso Michele Robledo titolare della storia –analizza, valuta e accusa: dalle conseguenze che porta il non averlo, il non poterlo esercitare in modo degno e riconosciuto, al giogo stretto attorno al collo di chi si sente inutile e spaesato, a tal punto che solo il suicidio può cancellare definitivamente i vincoli creati da questa non esistenza.
Il lavoratore è annullato da quello che è un non lavoro, che ha solo in apparenza le stesse fattezze ma ne depersonalizza il suo operatore che, sperso, volta le spalle alla sue identità di uomo, divenendo invisibile: riflesso di uno specchio in cui confida di ritrovare i frammenti delle sue essenza perduta che si rifraggono innumerevoli in un fare metafisico infinito.
Ma il rinunciare a quella essenza, nella convinzione di un nuovo inizio ha instabili fondamenta e, in un equilibrio liquido tra una nuova vita alla Mattia Pascal (richiamo fine alla sua tradizione sicula) e i concetti Baumaniani, lo rende inevitabilmente perdente.
Smarrendo, così, l’identità etica del lavoro, l’uomo vede dileguarsi il suo fine primo, che non è solo quello del guadagno o del salario, ma risiede anche in quella volontà di crescita che il singolo percepisce nel sentirsi “utile per l’altro” , in quel riconoscimento del proprio valore che è capacità di esecuzione, nell’evidenza di un merito che motiva spingendo alla collettiva che davvero permette di affermare che il “lavoro davvero può rendere tutti gli uomini liberi!”.