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La ballerina dello zar – Adrienne Sharp

“Mi chiamo Mathilde Kschessinska e sono stata la più grande ballerina russa nei teatri dell’impero. Ma il mondo in cui sono nata, il mondo nel quale sono cresciuta, è scomparso, così come sono scomparsi i suoi protagonisti: morti, uccisi, esiliati, ridotti a fantasmi ambulanti. Io sono uno di quei fantasmi.”

A voi, amanti della Russia degli Zar

La ballerina dello zarCosì inizia il romanzo di Adrienne Sharp, “La ballerina dello zar” (Neri Pozza, 2010), un vero e proprio capolavoro di scrittura, la descrizione di un mondo nascosto e misterioso che tanti di noi ancora oggi sognano a occhi aperti e con tanto di sospiro a lasciar le labbra dischiuse, ma che nessuno ha mai conosciuto veramente, nemmeno coloro che l’han realmente vissuto.

La Sharp è in grado, però, di trasportare il lettore tra le vie di Piter, tra le quinte del Mariinskij, tra le lenzuola che videro le notti di passioni ed intrighi, tra i lunghi corridoi di magnifici palazzi…

A tutti voi, amanti della Russia degli Zar, amanti di quella Russia ormai perduta, quella Russia fatta di lusso e sfarzo, d’oro e diamanti, di splendidi abiti in broccato e lunghe vesti scintillanti, casacche e giubbe dai colori pieni e vivaci, bordate di fitto e soffice colbacco, di Regge e Palazzi Imperiali, di gioielli e bicchieri di cristallo, di visi ben truccati e mani guantate, di Principi e Principesse, Imperatori e Imperatrici, di danza e piacere, di infedeltà ben nascosta da titoli e posizioni, di Teatri e corse in troica lungo la piazza, di fitti boccoli inumiditi con acqua zuccherata e lasciati asciugare per ore e ore, di scarpette da punta, di opulenza e maestosità…
Di una fine tragica e per sempre impressa nella storia.

A tutti voi ossessionati, come la sottoscritta, dalla storia degli ultimi Romanov, dello Zar Nicola II e della sua fine, di un’epoca di tumulti e soppressioni, di quel mistero che ancora oggi e per sempre sentiremo velare la storia dell’ultima famiglia che vide la luce come stirpe dei Romanov, di quelle figlie e di quel figlio strappati alla vita in gioventù, di quello Zar silente e misterioso, amante del teatro e dell’arte, che si fece trascinare da mal guidati consigli e maledetti personaggi… Da quel trentennio che vide l’ascesa e la caduta dell’ultima famiglia reale di Russia.

A tutti voi questo libro è dedicato – e consigliato.

“Basato sulla storia vera di Mathilde Kschessinska, ultima grande danzatrice dei Teatri imperiali russi, La ballerina dello zar è uno di quei rari libri che, attraverso lo sguardo di una donna che si ritrova suo malgrado a vivere alcuni dei più tragici eventi della Storia – la rivoluzione d’Ottobre, l’abdicazione dello zar, la prigionia di Nicola II insieme con Aleksej, il figlio legittimo, la drammatica fuga dalla Russia – narra magnificamente di un mondo i cui protagonisti si trasformano all’improvviso in fantasmi ambulanti e la cui bellezza sopravvive soltanto in qualche polverosa reliquia.”
– Dalla pagina del libro sul sito dell’editore Neri Pozza

Le sfaccettature del romanzo

Ciò che per primo salta all’occhio di questo libro è quanto sia difficile da inserire in un genere.

È un romanzo storico, poiché racconta in modo dettagliato la vita di un’epoca ormai passata e ricordata solo da storie sussurrate a bassa voce e da oggetti in teche di cristallo.

Il romanzo comincia con una data: 23 Marzo 1890 e prosegue sulla scia dell’epoca pre-rivoluzionaria prima e rivoluzionaria dopo, arrivando circa al 1920, per poi riprendere spezzoni di un passato antecedente la data d’apertura del romanzo, e momenti successivi che la protagonista, Mathilde, ha vissuto lontana dalla Russia e confinata in un appartamento parigino.

È un romanzo d’amore? Non del tutto e non soltanto. L’amore di per sé sembra non esistere in questo libro, ma posso assicurare che, seppur celato, l’amore permea le pagine del romanzo. 

No, non troveremo la classica storia d’amore a lieto fine, ma passioni e intrighi, mosse ben calcolate e decisioni prese con in testa un obiettivo specifico; ma si sa, l’amore è in grado d’infiltrarsi in ogni nicchia, ogni essere, passando dai meandri più oscuri e tediosi a volte, per raggiungere sempre la meta: il cuore.

“L’amore, perfino se non corrisposto, è sempre un dono. Chi poteva saperlo meglio di me?”

È una biografia? Autobiografia? Sì e no per la prima domanda, no per la seconda.
Non è un’autobiografia poiché non scritta da Mathilde Kschessinska; è una via di mezzo tra una biografia ed un romanzo di fantasia poiché mescola realtà e finzione, storia e immaginazione, avvenimenti realmente accaduti con racconti tratti da dicerie, leggende e e dal genio dell’autrice stessa.

In questo romanzo, la Sharp è riuscita a mescolare finzione e realtà in modo così magistrale da lasciare il lettore senza parole, e senza sapere dove mettere il libro nella propria libreria, se divisa per genere.

Nonostante io abbia studiato la vita della ballerina in questione e della dinastia dei Romanov, piccola mia ossessione, il modo in cui pettegolezzi e dicerie, finzioni scritte di “sana penna” e realtà storiche confutate da vere e proprie prove materiali vivano e convivano così armoniosamente tra loro, tutto questo rende questa lettura un piccolo dono.

È un grande pregio, questo mescolìo e questa tecnica perfetta dell’autrice: quello di far svanire ciò che una persona conosce realmente e soppiantarlo con finzioni che paiono così reali da sembrare realtà storica.

Lo stile autobiografico, poi, è un tocco da maestro.

L’utilizzo della prima persona, il mix temporale nelle vicende narrate, con una Mathilde che spesso inserisce aneddoti futuri e opinioni personali, per poi tornare a parlare nuovamente di ciò di cui stava trattando, facendo salti temporali di pochi o molti anni, dà al lettore quel sentore d’inesorabilità che permea l’intero romanzo, lasciando questo gusto dolce-amaro sulla lingua ed uno strano senso di fatalità che si poggia sulle spalle, non pesante, ma presente seppur inafferrabile.

Una sorta di leggera decadenza che si percepisce sin dalla prima riga, come se l’autrice volesse dirci di non affezionarci ai personaggi, poiché la loro fine sarebbe stata una fine tragica, sanguinolenta e senza pace.

Proprio quest’inesorabilità rende la lettura ancora più catartica: alla fine, infatti, le lacrime che si versano – che io stessa ho versato per lunghi minuti – sembra quasi ti aiutino a superare il dolore provato. In realtà, è tutta una finzione: quel senso di fine imminente, di rassegnazione non riesce ad abbandonarti per lunghi, lunghi giorni e la sofferenza che si prova per la fine tragica dei Romanov, quella sofferenza resta impressa.
Tanto di cappello, dunque, a quest’autrice talentuosa che ha mischiato una realtà storica dolorosa ed ancora avvolta nel mistero ad un’opera di finzione che si lega armoniosamente a fatti reali e vicende accadute.

Lo stile opulento della Sharp, in linea con gli Zar

Dal punto di vista dello stile, il romanzo della Sharp è una festa di aggettivi e descrizioni, termini dorati e maestosi come lo splendore di quella Russia ormai scomparsa. Lo stile descrittivo è pieno e ricercato e riesce a trasportare il lettore in questa Russia di fine Ottocento, in questo mondo scintillante che nasconde però un’anima fatta di vizi e cupidigia, ingordigia e brama di potere e piacere, anche grazie alla quasi assenza di discorsi diretti, che rende la lettura ancora più particolare: come se qualcuno stesse sussurrando al lettore parola per parola, lasciandogli la possibilità di chiudere gli occhi e viaggiare indietro nel tempo.

Una lettura che scivola senza intoppi, se non qualche stop nel rileggere nomi russi un po’ più particolari.

L’affresco storico di quel fine Ottocento, di quel periodo che va dal 1890 alla Rivoluzione Russa, con accenni ad epoche passate e future… Quest’affresco che ci viene regalato è un vero e proprio dono di bellezza, così come lo è l’arte della danza e la raffinatezza di questo mondo perduto.

Sin dalla prima pagina, il mondo attorno al lettore sbiadisce piano fino a scomparire.

Sembra la scena di un film: quando la realtà lascia spazio ad una nuova scena, sia essa un ricordo o un sogno, sfocandosi, crepandosi fino a far uscire un’immagine color seppia, antica, della quale si sente l’odore dell’inchiostro, del carbone per le stufe dell’epoca, l’odore stesso della città, il freddo pungente dell’inverno a San Pietroburgo, il rumore delle vecchie carrozze che battono sulle grosse pietre che compongono le strade e delle prime autovetture, il profumo di violetta che le donne usavano, bagnandosi un polpastrello per poi poggiarlo dietro all’orecchio, leggero.
Si sente la corposità dei velluti, dei tessuti delle giacche dei militari, di quelle sfarzose e colorate dei Romanov, si vede la luce tremolante che illumina una piccola via immersa nel candore abbagliante della neve, oppure quella forte ed abbacinante dei palazzi all’interno del quale si sta consumando un banchetto, il profumo del cibo che soggiunge anche al lettore.

Ecco quello che accade alla lettura: il nostro mondo scompare e noi veniamo gentilmente trasportati da un fil di vento a più di un secolo fa, invisibili ai protagonisti ed alle vicende che si rivelano ai nostri occhi, come fantasmi. Ma i fantasmi di un’epoca passata non sono i lettori…
Una cosa che ho potuto notare cominciando questa lettura è stata la leggera similitudine tra questo romanzo e “Memorie di una Geisha”, per lo meno, nella prima parte libro.
In un passaggio, Mathilde racconta di quanto San Pietroburgo sia un miscuglio d’Oriente e Occidente, di quanto quell’Orientalismo intrinseco della cultura russa non fosse mai svanito ma bensì incorporato alla voglia d’Occidente.

“In realtà, San Pietroburgo non è né orientale né occidentale, ma entrambe le cose. [..] È vero, la città è occidentale nell’architettura, ma orientale nei colori: rosso mattone, giallo senape, verde acido e azzurro fiordaliso.
[…] scoprirete che l’arredamento include tappeti decorati, arazzi di gran prestigio […] il samovar d’argento o d’ottone lucidato, pieno di tè bollente. Non fu facile per noi sbarazzarci del tutto della nostra eredità orientale […]”

Ed è proprio questo che ho notato.
La Russia ed il Giappone di fine Ottocento nascondevano lo stesso animo e lo stesso cuore, la stessa propensione al piacere ed alla perfezione dell’esteriorità, così come ci viene raccontato nel libro di Golden.
Soprattutto per quanto riguarda le ballerine: le Geishe della Russia.

“Era dalle nostra fila che imperatori, granduchi, conti e ufficiali di picchetto sceglievano le loro amanti, sempre attenti a scorgere una gamba ben tornita o un viso grazioso.
Basti pensare che uno di loro definì la danza classica «una parata di belle donne, un’aiuola dalla quale tutti possono raccogliere i fiori del piacere».”

Seppur la differenza sia sostanziale, soprattutto nel modo crudo con cui le vicende della vita di Mathilde vengono raccontate, non si può fare a meno di sentire questi due mondi come vicini: entrambi misteriosi, entrambi nascosti, entrambi così diversi da ciò che appaiono.

La protagonista del libro, dal quale punto di vista noi lettori scopriamo le vicende narrate, è una donna dalla dubbia moralità, alquanto discutibile. Mathilde Kschessinska è una donna che vive secondo le sue regole, a volte crudele e malvagia, a volte sola e sfinita, ma indubbiamente opportunista. E lei stessa lo dice ad inizio libro:

“[…]Da brava opportunista, una categoria che, facendone parte io stessa, ho sempre ammirato […]”

Ma Mathilde è anche una donna di passioni, una donna che vive l’amore dietro le mura erette attorno al suo cuore, attorno alla sua morale immorale, attorno a se stessa. Mura che nemmeno lei sa di possedere.
Ed è proprio questo che affascina della protagonista: Mathilde è fredda e calcolatrice, ma dietro molte delle sue mosse, spinte da bramosia di potere, si cela anche l’amore: quello stesso amore che prova per Nicola II prima, e Sergej dopo.
Mathilde crede di volere una vita con lo Zar per la posizione che egli le può offrire, per lo sfarzo, il prestigio, il denaro. In realtà, la donna ama lo Zar, lo ama da sempre.
Le sue mosse calcolatrici vogliono avvicinarla all’uomo non solo per il potere, ma anche per l’amore. Peccato che nemmeno lei se ne accorga…
Arriva un momento nel libro, dopo la morte dello Zar, che è lei stessa a dichiararsi, proprio quando il destino dividerà lei e Sergej per sempre:

“Mi feci il segno della croce, poi appoggiai sul vetro le dita coperte dai guanti incorniciando il viso triste di Sergej fin quando non divenne troppo piccolo per contenerlo in una mano; fu solo quando svanì del tutto dalla mia stretta che mi resi conto di amarlo.”

Mathilde finalmente svela a se stessa qualcosa che ha sempre nascosto inconsciamente: lei, alla fine, si è innamorata. Mathilde ha amato lo Zar e, probabilmente continuerà ad amarlo nel suo cuore per sempre, ma per Sergej alla fine, i sentimenti sono venuti allo scoperto; quell’uomo che le è rimasto accanto e che ha cresciuto Vova, il figlio che Mathilde ha avuto dallo Zar, l’illegittimo successore di Nicola II, come se fosse sangue del suo sangue. Ha amato Mathilde, Sergej, chiudendo un occhio ai suoi tradimenti ripetuti col cugino Andrej – che in seguito, dopo la morte di Sergej, ne diverrà il marito. E Mathilde lo ama a sua volta; ed è proprio nel momento in cui lo perde che riconosce d’averlo amato, e d’amarlo ancora.

“Poi vidi un uomo in pastrano correre lungo il molo e salire il pontile verso la nostra nave agitando le braccia e gridando un nome, che la distanza ridusse a un filo sottile.
Riuscii tuttavia ad afferrarne un’estremità fra due dita – M – e mi aggrappai al parapetto scrutando nell’oscurità. […]
E mentre aprivo la bocca per gridare il suo nome rischiando di dare spettacolo, Vova si chinò verso di me e disse «Non è lui».
No. Non era Sergej. Non ci raggiunse mai a Novorossijsk. Né a Tuapse, a Poti, a Batumi, a Constantinopoli, al Pireo, a Venezia, a Milano, a Cannes o a Cap d’Ail.”

Ma chi sono, oltre a Mathilde, gli altri personaggi di questo struggente racconto d’amore corrotto e calcolatore, ma passionale e ardente?

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Nicola II Romanov, lo Zar di Russia ed amante di Mathilde prima, padre di suo figlio dopo e Sergej Michajlovič Romanov, primo cugino dello zar Alessandro III, anch’egli amante della ballerina e poi suo compagno sino al momento della morte, avvenuta come esecuzione da parte dei bolscevichi poiché imparentato alla famiglia dello Zar.
Questi due sono i nomi che più si accostano alla protagonista; due personaggi importanti attorniati da molte altre figure come il grande Marius Petipa, maestro di danza e primo maître de ballet del balletto imperiale di San Pietroburgo sino al 1905, oggi ancora ritenuto uno dei più grandi grazie ad opere come Il Lago dei Cigni e La Bella Addormentata; il padre di Mathilde, il grande ballerino polacco Feliks Kšesinskij; Alix d’Assia e di Renaria, la principessa del Granducato d’Assia e del Reno, nipote della regina Vittoria del Regno Unito divenuta Zarina quando sposa lo Zar Nicola II è una figura particolare, odiata ed amata dal lettore poiché di parte, leggendo il libro con la voce di Mathilde. Donna debole e di poco carattere, da ciò che Mathilde racconta, ma madre spietata e piena d’amore per i propri figli ed anche per quel figlio che dal suo grembo non era stato partorito, ma bensì venuto al mondo da quello della donna che aveva sempre stretto tra le mani il cuore di suo marito Nicola. Andrej Vladimirovič Romanov, cugino di Sergej, prima amante di Mathilde e poi marito, di cui il figlio Vova prese il cognome.
La Russia, poi. Ecco, la Russia è forse il personaggio più importante, probabilmente alla pari con Mathilde stessa.
Nel mondo della Sharp, la Russia è un personaggio vivo e tangibile, come se quella terra fosse senziente e cosciente.

Una storia d’amore, di perdita e storia russa che si svela ai nostri occhi, La ballerina dello zar è un libro unico.
Passione, intrighi, corse al potere… Questo libro è questo e molto altro: è affresco di vita, di storia, di una realtà che ancora oggi affascina, fa piangere, fa arrabbiare. Che ancora oggi ci porta a vedere quel mondo con una sorta di lente sfocata e tremolante. Sappiamo cosa accade alla fine della Rivoluzione Russa. Sappiamo cosa accadrà a tutti i personaggi introdotti, sappiamo quanto tragica ed ingiusta sarà la loro fine, una fine che strappa lacrime e proteste, che ci fa sentire disgustati dalle azioni di chi si professava giusto, un nuovo messia per i più sfortunati. Disgusto è ciò che provi quando ti rendi conto delle azioni ignobili commesse dai bolscevichi, di come lo Zar e la sua famiglia vengano freddati senza un processo, di come le figlie vengano colpite e colpite da più proiettili e poi finite con le baionette poiché ancora vive dopo che i proiettili avevano rimbalzato sui loro gioielli.
Disgusto è ciò che provi quando pensi a come i loro corpi siano stati trattati, trascinati nel fango, fatti a pezzi, sciolti in acido e bruciati. Nascosti, lasciati a marcire senza degna sepoltura per più di sessantanni – più di ottanta, per due dei figli.

“I bolscevichi avevano piazzato sulla porta una decina di uomini con l’incarico di sparare a Niki, ad Alix e ai ragazzi, dopo averli allineati in quello scantinato con la scusa di scattare loro delle foto; terminata l’esecuzione, dovevano farli a pezzi. Come gli stessi bolscevichi avrebbero riferito in seguito, tutti sostenevano di aver ucciso lo Zar e non vedevano l’ora di raccontarlo in giro. Quando gli lessero gli ordini ricevuti […] Niki gridò «Cosa? Cosa?» fu il primo a morire, in quel piccolo scantinato della lontana Ekaterinburg. Alix, seduta sulla sua sedia, fu la seconda. Olga la terza. Le altre ragazze, nel frattempo, avevano iniziato a correre, i bustini così carichi di gioielli che i proiettili non riuscivano a perforarli. Correvano in cerchio in quello spazio angusto, inciampando sui corpi dei loro parenti – che gli spari avevano fatto crollare dalle sedie – e rannicchiandosi contro le pareti. Come potevano esistere uomini capaci di sparare a delle ragazze spaventate, di colpirle con il calcio del fucile e trafiggerle con le baionette, di uccidere un ragazzo di quindici anni mentre strisciava verso suo padre?”

Le lacrime scendono lungo il viso senza che nemmeno te ne accorgi.
Nonostante sapessi già cosa sarebbe accaduto – un po’ come quando guardiamo Titanic e speriamo sempre che Jack riesca ad aggrapparsi a quel pezzo di legno e salvarsi – leggi e divori queste pagine sperando che l’esito cambi; ma, ahimè, la fine resta sempre la stessa.
E la Sharp riesce a farti venire un groppo in gola ancora più grande, grazie alla sua scrittura.

Tramite le parole di Mathilde noi apprendiamo della sorte della famiglia Romanov, e quelle poche righe sono un vero colpo al cuore, seppur già sapessimo, già conoscessimo questa storia. Ma conoscerla, averla assimilata non riesce a renderla meno dolorosa.
L’ultimo sguardo all’imperatore ed alla sua famiglia ti lascia senza parole, con un groppo in gola troppo grosso per poter anche solo emanare un semplice respiro.
Come la dignità dell’ultimo sguardo che Nicola lancia a Mathilde fuori dal palazzo, la postura eretta, gli occhi fermi prima che la famiglia venga portata via dal palazzo verso quella che per mesi sarà la loro prigione prima, e luogo di morte dopo. E quella piccola mano dello zarevič Aleksej che saluta per l’ultima volta il suo compagno di avventure, l’amico e fratellastro Vova che si salva grazie allo Zar stesso, che fa comprendere che quel bambino no, non è con lui, per poterlo ridare indietro a Mathilde che fuori attende di poter rivedere suo figlio, riabbracciarlo. E rivedere il suo grande amore, Nicola, per l’ultima volta. Quell’amore nato quasi trent’anni prima, quando Alessandro III fece sedere la ballerina accanto al figlio, un appena ventiduenne Nicola, per far sì che quest’ultimo la prendesse come amante – amante che gli cambierà per sempre la vita, che entrerà nel suo cuore come lui entrerà in quello di lei.

“In Siberia uccisero tutti […]”

Anche quando Mathilde racconta della morte del padre, di come lei si sia stesa con lui nel letto, abbracciandolo, poiché sapeva che di lì a poco quel corpo ormai tiepido le sarebbe stato strappato via, anche in quelle pagine sentiamo il dolore di Mathilde, sentiamo quanto amore ci fosse dietro un velo di freddezza e rabbia.
Mathilde non è poi così crudele.
Opportunista? Sì. Ingorda di potere? Anche, ma indubbiamente capace di amare e soffrire per amore.

“Mio padre morì improvvisamente a luglio, un mese dopo il nostro arrivo. Si era coricato accusando un mal di testa e, quando mia madre mi mandò a controllare, non riuscii a svegliarlo. Sta solo dormendo, mi dissi, e montai sul letto accanto a lui cingendolo con un braccio, quindi avvicinai il mio viso al suo, dal quale avevo ereditato molti tratti, e osservai il cielo azzurro e luminoso fuori dalla finestra.
Pensai: Se non si alzerà, neanch’io ci riuscirò più.”

Il teatro e la coreografia della vita

Leggendo il titolo e la trama di questo libro, si pensa spesso che il teatro e la danza siano protagonisti assoluti.
Non c’è nulla di più sbagliato.
Mathilde non vedeva la danza come cuore e anima di se stessa, ma più come mezzo per raggiungere i suoi scopi.
Essere la prima ballerina, la ballerina assoluta dei Teatri Imperiali, era ciò che le conferiva potere, il potere che lei tanto bramava.
Studiare danza era nato come il proseguimento della carriera del padre e si era poi tramutato in un grande modo di raggiungere la popolarità ed il favore dei Romanov prima, i sogni di grandezza poi.
Però, nonostante la narrazione descriva il balletto e i teatri più come se essi orbitassero attorno alla storia che come figure di rilievo, molti aneddoti vengono comunque notati – ed amati.
Come la descrizione di Marius Petipa ed i suoi scontri con Mathilde.
O ancora di Čajkovskij, il grande Čajkovskij che, prima di morire, aveva promesso a Mathilde un’opera scritta per lei e solo per lei.

“Dopo il mio debutto nel ruolo di Aurora del 1893 […] Čajkovskij venne in camerino a dirmi che voleva comporre un balletto per me. Era come ricevere una visita da Dio in persona.”

Peccato, però, che l’uomo sia morto prima di poter compiere quell’ultima magia. Ed è proprio l’aneddoto sulla sua morte e che ci svela qualcosa della sua vita, che più colpisce.

Dal modo in cui l’autrice descrive la danza, però, possiamo vederne il suo background di ballerina.

Adrienne Sharp ha studiato danza all’Harkness Ballet di New York e insegna tutt’ora presso il Centro delle Arti Creative dell’Università della Virginia. Tra le sue opere possiamo infatti trovare White Swan, Black Swan (libro d’esordio definito grande capolavoro dalla critica statunitense), Sleeping Beauty e First love, tutti romanzi accomunati da una grande protagonista: la danza.

La ballerina dello zar narra le vicende dell’ultima grande ballerina dei Teatri Imperiali della Russia; delle sue turbolente passioni legate alla sua brama di potere, dei suoi giochi di seduzioni e mosse degne d’una partita a scacchi. Una storia torbida e corrotta, ma velata d’amore e dolore, sangue e distruzione.
Sullo sfondo della Russia di fine ottocento nasce un’amore strano, freddo, calcolatore eppur ardente… e sullo sfondo della Russia rivoluzionaria quest’amore muore, così come la storia dell’ultimo Zar e della sua famiglia, dei grandi teatri russi e delle sue ballerine.
Mathilde, però, ne resta emblema e voce viva, seppur esiliata alla capitale francese, dalla quale racconterà la sua storia. La sua storia e quella della sua Russia, una Russia ormai scomparsa che vive solo nei suoi ricordi.

“Se non le racconterò, certe cose resteranno ignote per sempre, e quando avrò perso completamente la memoria io stessa finirò per ignorarle. Non resteranno che vuote dicerie, gli scampoli di una verità in estinzione.”

Un consiglio, prima di concludere questa recensione.

Non leggete gli articoli sui ritrovamenti dei corpi della famiglia Romanov o di alcuni dei personaggi – come Sergej. Non cercate i documenti ufficiali, i comunicati ed i bollettini rilasciati dai bolscevichi, le trascrizioni delle parole di coloro che si vantarono dell’esecuzione dell’intera famiglia… Non cercate questi reperti reali, poiché la finzione riesce a far del male, sì, ma essa può passare quando il lettore sa che non è stata realmente vissuta; la realtà, invece, quel disgusto, quel senso di ingiustizia, quel tremore alle mani e quella sconsolatezza non passa mai.

Ma, soprattutto, non riguardatevi Anastasia. Ancor di più, saltate la parte in cui viene cantata “Quando viene Dicembre” o i fiumi di lacrime non finiranno mai.

Autore: Pamela Cannizzaro

Classe '89, brianzola di nascita ma londinese nel cuore. Aspirante scrittrice, lettrice appassionata, tè dipendente e futura cat lady. Amo i romanzi gotici, il soprannaturale e l'esoterico; la cultura giapponese, l'epoca Vittoriana, le fan-fiction, l'arte greca e romantica. Adoro le lingue, i manga, il pizzo e la cucina cinese.

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