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L’arte di essere fragili | Alessandro D’Avenia

arte di essere fragili d'aveniaQuando sentite il nome di Giacomo Leopardi, qual è la prima cosa che vi viene in mente?

Personalmente penso alla mia professoressa di Italiano e Letteratura che lo associa ad una sola parola, ossia pessimismo, e la cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Nella stragrande maggioranza dei casi Leopardi viene proprio descritto così, come il simbolo del pessimismo, colui che in preda a mille difficoltà, soprattutto fisiche, vede tutto nero intorno a sé.

Se avessimo per esempio raccontato che, da bambino, Giacomo Leopardi amava scappare in soffitta e giocare con le ombre e le luci che penetravano da una tenda; che amava interpretare personaggi eroici nelle rappresentazioni giocose con i fratelli?

Il mito leopardiano e la sua fragilità

Con questa domanda, Alessandro D’Avenia inizia già a incrinare il mito “pessimistico” che ruota intorno alla figura del poeta di Recanati, dando in pasto al nostro cervello una notizia poco attinente con la figura di un uomo triste.

E da qui che inizia un lungo viaggio letterario, composto da una lettera di introduzione al lettore e una serie di lettere divise in quattro raccolte, in base agli argomenti trattati, che l’autore rivolge al poeta ispirandosi a un’opera incompiuta ovvero “Lettera a un giovane del ventesimo secolo”.

Dunque ci troveremo di fronte a una sorta di epistolario, suscitando la sensazione che l’autore e il poeta rompano i muri della realtà creando un rapporto fraterno, intimo, in un dialogo incentrato per lo più a sovvertire l’idea che l’immaginario collettivo e la Letteratura tutta hanno costruito attorno alla figura di Leopardi,  quasi a renderlo quasi un esempio da seguire per avere successo nella vita.

Un’impresa ardua e difficile, anche perché quando un’idea ci viene inculcata nel cervello difficilmente la si può sradicare ( Inception docet ), eppure Alessandro D’Avenia riesce in parte nella sua impresa, raccontando di un Leopardi inedito, di un Leopardi che nonostante le sue difficoltà trova il modo di nutrire e amare la vita. Soprattutto, la sua passione per la poesia lo spinge da un lato allo “studio matto e disperatissimo”, ma allo stesso tempo a trovare “la cura” per la malattia agli occhi, le difficoltà motorie, gli amori non corrisposti, “curati” appunto da piccoli atti di amore, come camminare di notte contando le stelle o ammirare “l’infinito oltre la siepe”.

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Quindi D’Avenia ci mostra Leopardi come un ragazzo, un uomo, che insegue disperatamente l’amore, la vita, la speranza, e per farlo ama la sua poesia, le sue infermità fisiche e i suoi drammi invitandoci a essere un po’ come lo stesso poeta, ossia fragili, pronti a lasciarci trasportare dai sentimenti, denunciando una società moderna dove “ogni fragilità sembra essere bandita”.

Trovare l’infinito in tutto ciò che è finito

L’intento di Alessandro D’Avenia risulta più che nobile e, anzi, da al lettore la possibilità di aprire la mente verso una nuova prospettiva letteraria, vedendo Leopardi come una figura da cui trarre ispirazione per raggiungere i propri obiettivi.

Ma non è tutto oro quello che luccica: in alcuni casi, D’Avenia si lascia andare in dialoghi prolissi e ripetitivi, infarcendoli con i propri trascorsi da professore quasi a voler strappare ad ogni costo l’agognata lacrimuccia, non riuscendoci.

All’inizio la lettura risulta affascinante, incolla il lettore al libro perché lo stesso suscita interesse, ma a lungo andare lascia addosso la sensazione che i concetti espressi da Alessandro D’Avenia siano sempre gli stessi, seppure ponendo il suo dialogo con il poeta in modo da analizzare ogni sua fase storica, sia dal punto di vista biografico che letterario, prendendo gli argomenti trattati dall’autore in un’ottica moderna, basandoli però sullo stesso comun denominatore.

Ed è tutto lì l’errore di fondo.

Un’idea vincente, bella, affascinante, piena di argomenti, che però poteva essere sfruttata in maniera migliore. Detto ciò, però, qualcosa rimane quando si finisce il libro: probabilmente i veri pessimisti erano i nostri professori che non hanno mai compreso Leopardi.

Autore: Luigi Russo

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