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LA GUERRA NON HA UN VOLTO DI DONNA

È grazie alla biografia di Svetlana Aleksievič che si comprendono l’importanza e l’unicità di un testo come La guerra non ha un volto di donna, dal momento che proprio a causa della Censura Sovietica, il volume tardò a giungere alle stampe e conseguentemente ad essere diffuso. Il suo intento non fu raccontare la guerra, ma le persone nella guerra, la storia dei sentimenti.

Svetlana Aleksievič, una vita al servizio della verità

Svetlana Aleksievič, nata il 31 maggio del 1948 in Ucraina, dopo il congedo dall’esercito del padre, si trasferì in Bielorussia. Dopo essere stata cronista presso un giornale locale, entrò definitivamente nella redazione della rivista a diffusione nazionale Sel’skaja gazeta e successivamente giunse alla rivista letteraria Neman, nella quale era responsabile della sezione critica e giornalistica.

Nel 1983 terminò di scrivere La guerra non ha un volto di donna, ma la censura la accusò di dissacrazione della figura della donna sovietica, di essere antisovietica, di essere una giornalista dissidente: il libro rimase bloccato per ben due anni dall’editore. Poi sopraggiunse Gorbačëv e finalmente nel 1985 raggiunse i due milioni di copie.

Nel 1989 uscì I ragazzi di zinco, racconto crudo della guerra sovietica condotta in Afghanistan che culminò, nel 1993, in un processo di carattere politico, dal quale l’autrice uscì relativamente indenne solo grazie all’aiuto di personalità internazionali. Nello stesso anno uscì Incantati dalla morte, storia dei morti suicidi dopo il crollo dell’impero socialista sovietico.

Nel 1997 fu la volta di Preghiera per Černobyl, testimonianze raccapriccianti, impressioni e sentimenti dei sopravvissuti al disastro radioattivo. I testi della Aleksievič sono stati tradotti in diciannove lingue oltre al russo, inoltre ne sono state tratte sceneggiature cinematografiche e teatrali in vari paesi. Da non dimenticare i riconoscimenti e i numerosi premi letterari tra i quali svetta il recentissimo Premio Nobel per la Letteratura, grazie al quale la scrittrice si augura di trovare la libertà.

Gli uomini hanno paura che le donne raccontino tutta un’altra guerra.

Senza la tenacia e la voglia di verità dell’autrice non avremmo mai avuto le preziose testimonianze contenute tra le pagine di questo libro. La Aleksievič per due anni annotò i racconti delle donne che parteciparono al secondo conflitto mondiale, combattendo strenuamente per il loro Paese come uomini, al fianco di uomini, contro altri uomini. Sono storie di ragazze allora sedicenni, diciassettenni, che come volontarie si arruolarono, per amore di Stalin e del Partito.

Le donne hanno dovuto affrontare più ostacoli: una storia maschilista e crudele che le ha volute dimenticare, un regime bieco e ottuso che mai avrebbe voluto rivelare il loro straordinario impegno e le condizioni in cui furono costrette ad operare e i mariti stessi che prima delle interviste le indottrinavano o le inibivano o le mandavano a preparare tè e biscotti per raccontare indisturbati la loro guerra e le loro medaglie.

“Ma perché, non ci sono abbastanza uomini da intervistare? Che cosa se ne fa di queste storie che le raccontano le donne? Storie di fantasia…”

Il motivo per cui la Censura fece sì che questo volume rimanesse occultato è da ricercare nella miopia del Partito stesso, ovvero nella volontà di non rendere emotiva la guerra finora raccontata dagli uomini. Un sanguinoso conflitto fatto di calcolate azioni militari e non da morte, dolore, sonno, fame e miseria.

 “Sì, la Vittoria c’è costata molte sofferenze, ma lei deve orientarsi sugli esempi di eroismo. Ce ne sono centinaia. E invece lei della guerra preferisce mostrare il sudiciume, la biancheria intima. Nei suoi scritti la nostra Vittoria è orribile… Che scopo si prefigge esattamente?”

“La verità.”

Non solo racconti di guerra, ma ricordi di vita

Per decine di viaggi, centinaia di cassette registrate e migliaia di metri di nastro magnetico si tratteneva a lungo in un appartamento. Sorseggiava tè, parlava di frivolezze, guardava fotografie e solo allora le donne ritrovano loro stesse. “Cominciavano a rievocare non la guerra ma la propria giovinezza. Un pezzo della propria vita… Bisogna cogliere quel momento” e il vero peccato era non avere la possibilità di imprimere nel nastro magnetico la gestualità delle mani, gli sguardi.

Una guerra diversa in base alla professione: istruttrici sanitarie, tiratrici scelte oppure fucilieri mitragliatori, a capo di una batteria antiaerea o nel genio, nonché aviatrici. Tante le infermiere che hanno amputato arti al punto da chiedersi se mai fosse rimasto un uomo con entrambe le gambe o le braccia.

Donne insignite di medaglie per il Coraggio, per l’Onore, donne cadute addormentate per la stanchezza mentre camminavano e che pur pesando meno di cinquanta chili trascinavano feriti di ottanta. Indossavano uniformi maschili, biancheria maschile e per giunta, dopo aver rischiato la vita e difeso la Patria, una volta tornate, subivano l’onta di essere state a lungo tempo a contatto con tanti uomini e chissà chi le avrebbe mai più sposate.

Solo la verità, senza retorica

Un susseguirsi, senza retorica, di testimonianze significative e concrete, di donne cresciute troppo in fretta. Un intenso resoconto cronachistico della controffensiva Sovietica, da leggere tutto d’un fiato per perdersi nel vortice di una guerra che sapeva di cloroformio, tintura di iodio e fango.

Sulla pelle delle donne soldato, abiti intirizziti dal freddo e dal sangue secco, sui piedi, ferite per gli stivali troppo lunghi.

Lacrime non versate perché non c’era tempo, perché i morti erano troppi e perché si sarebbe pianto solo alla fine, al momento della Vittoria.

Autore: Marianna Alvaro

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