La figlia del faraone, la principessa che amava Mosè più di un figlio
Fin da bambina, la più grande paura di Anippe era di morire di parto. Era capitato alla mamma, proprio davanti a lei, alla sorellina Ankhe e al fratello maggiore Tut. Non erano rare le gravidanze infauste nell’Egitto del 1250 avanti Cristo, ambientazione del romanzo storico di Mesu Andrews “La figlia del faraone”, in Italia per i tipi Piemme dal luglio 2016, 456 pagine 18,50 euro. È il primo titolo della serie I tesori del Nilo, a firma dell’autrice americana di narrativa storica a tema biblico, una passione nata dall’amore per la ricerca storica e dalla lettura della Bibbia alle sue bambine per addormentarle.
Anippe, la figlia del faraone
Il nome assegnato ad Anippe alla nascita era Meryetaten, lo stesso della figlia di Nefertiti. Un’espediente nel caso Anubis si fosse recato a caccia proprio negli ambienti di corte: passando da quelle parti il dio crudele avrebbe potuto scegliere lei, scambiandola per la principessa. In realtà, anche la piccola egizia è una principessina, figlia del faraone in carica. Ma Akhenaton non ha occhi che per il primogenito, nato dall’unione con Kiya, la Sposa Amata, perché Nefertiti, la Grande Sposa, non gli aveva dato eredi maschi.
Un grande affresco storico, dettagliato e attendibile
Tanto l’antipatia del severo sovrano per le figlie femmine, quanto l’usanza di dare nomi esca ai secondi figli per preservare la sorte dei primogeniti, sono particolari amorevolmente approfonditi da Mesu Andrews per rendere le vicende del mondo egizio storicamente credibili, arricchendole di dettagli. Certo, la stessa scrittrice non nasconde qualche riserva nell’accostare Tutankhamen e la sorella Meryetaten-Anippe all’Esodo, ma si tratta di licenze narrative veniali in un grande affresco, qual è questo romanzo, che riprende la storia della travagliata nascita di Mosè, vista soprattutto dai palazzi reali egizi, oltre che dalle baracche delle famiglie ebree in schiavitù.
I fratelli separati
Gli orfani di Ummi Kiya sono dati in adozione al generale Horemheb e alla moglie Amenia, che li crescono amorevolmente a Menfi, ma la morte di Abbi Akhenaton porta Tut ad appena dieci anni sul trono dei Due Regni, obbligato per giunta a sposare Senpa, il doppio della sua età, sempre figlia della Grande Sposa, sorellastra quindi del giovanissimo marito, secondo la deprecabile usanza nell’antico Egitto. Cinque anni dopo, mentre intorno al faraone adolescente si moltiplicano trame e cospirazioni dei dignitari d’alto rango, Anippe viene a sua volta data in sposa, quattordicenne, a un generale, un bell’uomo, robusto, che si rivelerà capace di momenti di tenerezza ma anche di terribili scatti d’ira. Vanno a vivere lontano da corte, sul Delta del Nilo, nelle residenze secondarie del trono d’Egitto.
Il bambino nella cesta
Il terrore di Anippe per il parto e il suo matrimonio con Sebak rappresentano la premessa della storia di Mosè, o meglio Mehy, come la principessa decide di chiamare con un nome egizio il neonato che insieme alla sorella Ankhe trova abbandonato in un cesto affidato al fiume. Di poche settimane, circonciso, è sfuggito in quel modo alla strage dei nati maschi degli schiavi ebrei, ordinata dal faraone. Una vendetta trasversale per la perdita del suo erede. Anippe considera il piccolo un dono del Nilo. Il marito è da poco partito per la guerra e non tornerà presto. Potrà così fargli credere di avere sostenuto la gravidanza e partorito un bambino sano. La bugia sistemerebbe ogni cosa: l’uomo avrebbe il figlio desiderato senza che la giovane donna debba affrontare il rischio di un parto.
Risposte a domande senza tempo
I dettagli da collocare al posto giusto sono tanti, come anche le combinazioni che si creano (la schiava ebrea alla quale Mehy viene affidato a balia per l’allattamento è la sua stessa madre). La scrittrice americana prosegue con maestria e sicurezza, tessendo una storia accattivante che tenta di colmare i molti punti oscuri sulla prima parte della vita di Mosè, rispondendo a diversi interrogativi che le Sacre Scritture lasciano senza risposta.
Scrivere un romanzo basato sulla Bibbia è al tempo stesso frustrante ed esaltante, confessa Mesu Andrews, è come una caccia al tesoro: si scava nei testi antichi e spesso si scoprono particolari trascurati che confermano, chiariscono e talvolta approfondiscono la conoscenza.
Mehy e Mosè sono esistiti davvero nella realtà storica. Quanto a stabilire però se siano stati la stessa persona, solo Dio può saperlo.