Il gene egoista, di Richard Dawkins. L’evoluzione nei geni
Il gene egoista (Mondadori, 372 pagine) è stato sicuramente uno dei libri di divulgazione scientifica più influenti e di successo della seconda metà del XX secolo. Pubblicato per la prima volta nel 1976 col titolo The selfish gene dal biologo britannico Richard Dawkins (che, dopo la pubblicazione dell’opera, ha raggiunto in poco tempo una fama internazionale proprio grazie alle sue teorie evoluzionistiche), Il gene egoista ha avuto il merito (e il coraggio, anche) di aver saputo suggerire una nuova prospettiva all’interno del moderno pensiero evoluzionista.
L’evoluzione al tempo del DNA
Qual è l’unità biologica fondamentale che sta alla base dell’evoluzione degli organismi? Su cosa lavora la selezione naturale? Su cosa dovrebbe concentrarsi la biologia per comprendere appieno il puzzle dell’evoluzione? Se Darwin, ne L’evoluzione delle specie, aveva risposto a queste domande utilizzando i concetti di organismo e di specie (l’evoluzione si esplica nella creazione di nuove specie, e la selezione naturale ha come base il singolo organismo), era pure vero che in quasi un secolo la teoria darwiniana era stata man mano modificata, ampliata, corretta per integrare le nuove conoscenze. In particolare la scoperta del DNA e dei meccanismi genetici di riproduzione e mutazione aveva dato il via ad una sorta di rivoluzione scientifica, portando alla nascita della teoria sintetica dell’evoluzione. È su queste basi che Dawkins espone la sua teoria: soggetto della selezione non sono, secondo lui, gli organismi, ma i singoli geni.
Replicatori immortali e macchine da sopravvivenza
Secondo Dawkins le singole cellule, gli organismi e gli individui non sono che “macchine da sopravvivenza” dei geni, veicoli biologici utili a trasmettere l’informazione genetica. Ogni essere vivente è una colonia di geni, strutturata in maniera tale da permetterne la sopravvivenza e la riproduzione. I comportamenti, gli istinti, i modi di vita degli organismi altro non sarebbero che il riflesso, deterministico, della loro struttura genetica, la quale a sua volta viene selezionata in modo da aver la maggior probabilità. Lo stesso DNA altro non sarebbe che un replicatore (formatosi in maniera casuale attraverso l’unione di molecole), la cui funzione è di perpetuare insiemi di geni. Il modo in cui si era andati guardando all’evoluzione risultava errato. Gli organismi mutano e si sviluppano non per il bene della specie, ma per quello dell’individuo e, indirettamente, dei suoi geni: entità tipicamente egoiste, perché votati unicamente alla propria trasmissione e replicazione. Da questi nuovo punto di vista si poteva perciò spiegare la presenza di geni e comportamenti deleteri per l’individuo, o l’altruismo dimostrato da alcuni animali vero i parenti stretti e la prole (che altro non sarebbe che un meccanismo dei geni volto a conservare altre copie di sé), oltre che le abitudini di molti insetti sociali. Se la vita biologica, quindi, si presenta secondo Dawkins come continua selezione di molecole per come una lotta tra geni per la loro propagazione, con la cultura ha fatto la sua comparsa un nuovo replicatore immortale: quello che Dawkins chiama meme, unità di informazione che si trasmette per imitazione attraverso le idee, l’arte, il linguaggio, protagonista dell’evoluzione culturale. Il gene egoista è un saggio basato su una tesi interessante, esposta bene, in maniera colloquiale e divulgativa, evitando tecnicismi e ricorrendo a molti esempi pratici e metafore per non annoiare i lettori e non scoraggiare quelli meno pratici con le teorie evoluzioniste. Una tesi, certo, non esente da critiche, e che forse, per quanto persuasiva e fresca sia la prosa di Dawkins, non potrà lasciare un po’ perplessi in alcuni punti.